Dipinto di Giuseppe Tradii: http://www.sensibiliallefoglie.it/tradii.htm |
C. B.: So che Dacia Maraini è intervenuta più volte su
“La Stampa” per parlare del tuo lavoro di liberazione, assistendo a
feste e concerti che avevi organizzato nei reparti. Mi può parlare di
quel periodo?
G.A.: Siamo nel 1978, periodo in cui, con la nuova legge, ci doveva essere una ristrutturazione dell’intera istituzione manicomiale. Cotti avrebbe dovuto farmi primario in modo che non dipendessi più da medici che non mi accettavano. Invece questo non successe ed io rischiavo di essere affiancato ad uno di quei medici tradizionali e di dover rincominciare da capo tutto il lavoro che avevo fatto fino a quel momento. Un mio amico, Piero Colacicchi, che era a conoscenza di questa situazione ne parlò con Dacia Maraini che venne a vedere i miei reparti. Prima mi fece un’intervista in cui io descrivevo come erano i miei reparti con le persone libere, che si vestivano a loro piacimento, che assistevano ai concerti, che uscivano per andare all’autodromo, a teatro, al bar confrontandoli con gli altri in cui le persone erano ancora rinchiuse. Dopo questo articolo i sindacati mi accusarono di dire il falso perché, secondo loro, anche le persone degli altri reparti stavano bene ed erano liberi. Allora io mi misi di nuovo in contatto con Dacia Maraini che ritornò a Imola e scrisse un altro articolo in cui riconfermava tutto quello che aveva visto la prima volta. Il giorno in cui lei venne all’Osservanza c’era anche l’orchestra dei giovani dell’Aquila: le ricoverate, vestite di tutto punto, ballavano mentre l’orchestra suonava Mozart; uscivano, entravano, scherzavano. Dacia Maraini volle vedere gli altri reparti.
G.A.: Siamo nel 1978, periodo in cui, con la nuova legge, ci doveva essere una ristrutturazione dell’intera istituzione manicomiale. Cotti avrebbe dovuto farmi primario in modo che non dipendessi più da medici che non mi accettavano. Invece questo non successe ed io rischiavo di essere affiancato ad uno di quei medici tradizionali e di dover rincominciare da capo tutto il lavoro che avevo fatto fino a quel momento. Un mio amico, Piero Colacicchi, che era a conoscenza di questa situazione ne parlò con Dacia Maraini che venne a vedere i miei reparti. Prima mi fece un’intervista in cui io descrivevo come erano i miei reparti con le persone libere, che si vestivano a loro piacimento, che assistevano ai concerti, che uscivano per andare all’autodromo, a teatro, al bar confrontandoli con gli altri in cui le persone erano ancora rinchiuse. Dopo questo articolo i sindacati mi accusarono di dire il falso perché, secondo loro, anche le persone degli altri reparti stavano bene ed erano liberi. Allora io mi misi di nuovo in contatto con Dacia Maraini che ritornò a Imola e scrisse un altro articolo in cui riconfermava tutto quello che aveva visto la prima volta. Il giorno in cui lei venne all’Osservanza c’era anche l’orchestra dei giovani dell’Aquila: le ricoverate, vestite di tutto punto, ballavano mentre l’orchestra suonava Mozart; uscivano, entravano, scherzavano. Dacia Maraini volle vedere gli altri reparti.
Dovettero
aprire le porte con le chiavi; entrarono: c’erano persone tristi, in
camice. Così pubblicò altri articoli, raccontando quello che aveva visto
con i propri occhi. I sindacati si trovarono completamente spiazzati,
perché di lei non potevano certo dire che lo faceva per protagonismo.
In seguito, ogni volta che mi accadeva qualcosa di particolare, Dacia
Maraini se ne occupò sempre. Per fare una sintesi: siamo partiti dalla
camicia di forza e siamo arrivati al Parlamento Europeo, dove le persone
ex internate sono state ricevute per discutere dei loro diritti con
una commissione del parlamento, in collegamento con Eugenio Melandri,
allora parlamentare europeo di rifondazione comunista e con Pannella. Un
altro discorso interessante è quello della visita a Giovanni Paolo II.
Davanti al manicomio c’è una chiesetta dei francescani e alcune delle
donne del reparto 14 o di altri reparti andavano a messa lì oppure a
fare una visita in chiesa poiché erano religiose. Una volta trovai il
frate francescano che le stava buttando fuori e io gli domandai che cosa
stava succedendo: lui mi rispose che non voleva quelle donne in chiesa;
io gli ribattei che quelle donne avevano il diritto di andare lì a
pregare come tutti gli altri, inoltre di ricordarsi, dal momento che era
un francescano, che S. Francesco baciava sulle labbra i lebbrosi.
Tornai a casa molto arrabbiato e parlai con mia moglie di questa cosa:
lei mi ricordò che avevo aiutato un diplomatico del Vaticano, che sta
qui a Firenze, che aveva paura di prendere l’aereo e si era rivolto a
me. Allora gli telefonai e gli dissi che avevo intenzione di portare le
persone religiose dei miei reparti dal Papa. Egli mi disse che prima di
decidere, voleva incontrare queste persone per parlare con loro; così
decidemmo di andare a pranzo fuori con le mie ex ricoverate. Egli rimase
entusiasta e ne parlò in Vaticano. Così ci decidemmo a partecipare ad
un incontro con il Papa, ci sedemmo in prima fila e Giovanni Paolo II
parlò volentieri sia con le mie ex ricoverate che con me. Infine facemmo
delle fotografie che mandai al frate.
C. B.: Come ha reagito la popolazione internata a questa azione di eliminazione della contenzione e della coercizione?
G. A.: All’inizio non capirono bene cosa stesse
succedendo e questo era logico perché io stavo portando avanti un
cambiamento mai visto prima, inoltre erano molto spaventate. Vivere in
un’istituzione psichiatrica significa avere continuamente paura perché
gli psichiatri usano terrorizzare continuamente i propri pazienti. In
manicomio le persone che ho visto avevano sempre paura: all’inizio la
ebbero anche di me, anche se con il tempo riuscii a conquistare la loro
fiducia. Appena cominciai il mio lavoro le internate avevano molta paura
ed esitavano spesso a farsi slegare. Spesso alcuni individui del
personale mi dicevano che certi ricoverati stavano legati perché lo
volevano. Io risposi che ormai potevano “volerlo”, mentre per anni
interi la loro volontà non era stata neppure considerata. Trovandosi
slegati all’improvviso, avevano paura di fare qualcosa per cui avrebbero
potuto essere perseguitati, picchiati e legati di nuovo, quindi
preferivano stare legati. Tuttavia la situazione andava affrontata. Per
esempio, nel reparto 14 (http://centro-relazioni-umane.antipsichiatria-bologna.net/2011/05/15/teresa-b-dentro-fuori-roberta-giacometti/)
c’era una donna che non voleva essere slegata, così io non la slegai
subito. Ho passato accanto a lei ore e ore. Le dicevo: “Io sono qui
perché Lei deve essere liberata. Ci vorrà tempo, dovrà convincersi; Io
sono un medico e non un carceriere e non posso ammettere che Lei stia in
questa condizione. Però aspetto, perché Lei ha diritto di esprimere
quello che sente e le paure che comporta il ritornare ad essere una
persona libera”. Via, via, ci siamo messi d’accordo. Lei ha cominciato a
camminare nel giardino e le sue condizioni fisiche spaventose sono
lentamente guarite quando è passata dalla condizione di donna legata
continuamente a quella di una donna libera che può camminare, parlare,
vestirsi, uscire, e così via. Il lavoro che io ho fatto contro il
manicomio è stato quello di partire dalla “camera di tortura” e di
arrivare alla residenza. Questo sempre nel rispetto delle scelte degli
internati e delle loro necessità: non ho mai obbligato nessuno ad uscire
se non ne aveva voglia o se non se la sentiva. Anche quando si facevano
i viaggi, come ho detto prima, in varie città europee come Venezia,
Firenze, Milano, Parigi, Vienna, Strasburgo, venivano soltanto quelli
che volevano, quelli che l’avevano scelto individualmente. Dall’ambiente
in cui non si è nessuno e non si può scegliere niente si è passati
all’ambiente in cui si è considerati una persona che può scegliere senza
troppe interferenze altrui. Si è trattato di un capovolgimento
completo. Le camere delle internate vennero per esempio abbellite a loro
piacimento. Alcune persone trovarono invece sistemazioni esterne al
manicomio, si trasferirono in appartamenti. Per esempio, c’erano alcune
persone che avevano un rapporto affettivo o amoroso tra di loro che, con
l’aiuto del Comune, trovarono degli appartamenti e si sistemarono in
essi. Altri tornarono dalle famiglie; chi, invece, rimaneva lì non aveva
nessuno fuori, ma viveva in manicomio come in una residenza con i
propri oggetti, con le proprie abitudini, con il proprio modo di
vestire. Ognuno viveva secondo le proprie scelte.
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