sabato 6 maggio 2017

Intervista a Giorgio Antonucci – Tesi di Laurea di Clarissa Brigidi – III Parte


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Dipinto di Giuseppe Tradii: http://www.sensibiliallefoglie.it/tradii.htm

C. B.: So che Dacia Maraini è intervenuta più volte su “La Stampa” per parlare del tuo lavoro di liberazione, assistendo a feste e concerti che avevi organizzato nei reparti. Mi può parlare di quel periodo? 
  
G.A.: Siamo nel 1978, periodo in cui, con la nuova legge, ci doveva essere una ristrutturazione dell’intera istituzione manicomiale. Cotti avrebbe dovuto farmi primario in modo che non dipendessi più da medici che non mi accettavano. Invece questo non successe ed io rischiavo di essere affiancato ad uno di quei medici tradizionali e di dover rincominciare da capo tutto il lavoro che avevo fatto fino a quel momento. Un mio amico, Piero Colacicchi, che era a conoscenza di questa situazione ne parlò con Dacia Maraini che venne a vedere i miei reparti. Prima mi fece un’intervista in cui io descrivevo come erano i miei reparti con le persone libere, che si vestivano a loro piacimento, che assistevano ai concerti, che uscivano per andare all’autodromo, a teatro, al bar confrontandoli con gli altri in cui le persone erano ancora rinchiuse. Dopo questo articolo i sindacati mi accusarono di dire il falso perché, secondo loro, anche le persone degli altri reparti stavano bene ed erano liberi. Allora io mi misi di nuovo in contatto con Dacia Maraini che ritornò a Imola e scrisse un altro articolo in cui riconfermava tutto quello che aveva visto la prima volta. Il giorno in cui lei venne all’Osservanza c’era anche l’orchestra dei giovani dell’Aquila: le ricoverate, vestite di tutto punto, ballavano mentre l’orchestra suonava Mozart; uscivano, entravano, scherzavano. Dacia Maraini volle vedere gli altri reparti.
Dovettero aprire le porte con le chiavi; entrarono: c’erano persone tristi, in camice. Così pubblicò altri articoli, raccontando quello che aveva visto con i propri occhi. I sindacati si trovarono completamente spiazzati, perché di lei non potevano certo dire che lo faceva per protagonismo. In seguito, ogni volta che mi accadeva qualcosa di particolare, Dacia Maraini se ne occupò sempre. Per fare una sintesi: siamo partiti dalla camicia di forza e siamo arrivati al Parlamento Europeo, dove le persone ex internate sono state ricevute per discutere dei loro diritti con una commissione del parlamento, in collegamento con Eugenio Melandri, allora parlamentare europeo di rifondazione comunista e con Pannella. Un altro discorso interessante è quello della visita a Giovanni Paolo II. Davanti al manicomio c’è una chiesetta dei francescani e alcune delle donne del reparto 14 o di altri reparti andavano a messa lì oppure a fare una visita in chiesa poiché erano religiose. Una volta trovai il frate francescano che le stava buttando fuori e io gli domandai che cosa stava succedendo: lui mi rispose che non voleva quelle donne in chiesa; io gli ribattei che quelle donne avevano il diritto di andare lì a pregare come tutti gli altri, inoltre di ricordarsi, dal momento che era un francescano, che S. Francesco baciava sulle labbra i lebbrosi. Tornai a casa molto arrabbiato e parlai con mia moglie di questa cosa: lei mi ricordò che avevo aiutato un diplomatico del Vaticano, che sta qui a Firenze, che aveva paura di prendere l’aereo e si era rivolto a me. Allora gli telefonai e gli dissi che avevo intenzione di portare le persone religiose dei miei reparti dal Papa. Egli mi disse che prima di decidere, voleva incontrare queste persone per parlare con loro; così decidemmo di andare a pranzo fuori con le mie ex ricoverate. Egli rimase entusiasta e ne parlò in Vaticano. Così ci decidemmo a partecipare ad un incontro con il Papa, ci sedemmo in prima fila e Giovanni Paolo II parlò volentieri sia con le mie ex ricoverate che con me. Infine facemmo delle fotografie che mandai al frate.

C. B.: Come ha reagito la popolazione internata a questa azione di eliminazione della contenzione e della coercizione?

G. A.: All’inizio non capirono bene cosa stesse succedendo e questo era logico perché io stavo portando avanti un cambiamento mai visto prima, inoltre erano molto spaventate. Vivere in un’istituzione psichiatrica significa avere continuamente paura perché gli psichiatri usano terrorizzare continuamente i propri pazienti. In manicomio le persone che ho visto avevano sempre paura: all’inizio la ebbero anche di me, anche se con il tempo riuscii a conquistare la loro fiducia. Appena cominciai il mio lavoro le internate avevano molta paura ed esitavano spesso a farsi slegare. Spesso alcuni individui del personale mi dicevano che certi ricoverati stavano legati perché lo volevano. Io risposi che ormai potevano “volerlo”, mentre per anni interi la loro volontà non era stata neppure considerata. Trovandosi slegati all’improvviso, avevano paura di fare qualcosa per cui avrebbero potuto essere perseguitati, picchiati e legati di nuovo, quindi preferivano stare legati. Tuttavia la situazione andava affrontata. Per esempio, nel reparto 14 (http://centro-relazioni-umane.antipsichiatria-bologna.net/2011/05/15/teresa-b-dentro-fuori-roberta-giacometti/) c’era una donna che non voleva essere slegata, così io non la slegai subito. Ho passato accanto a lei ore e ore. Le dicevo: “Io sono qui perché Lei deve essere liberata. Ci vorrà tempo, dovrà convincersi; Io sono un medico e non un carceriere e non posso ammettere che Lei stia in questa condizione. Però aspetto, perché Lei ha diritto di esprimere quello che sente e le paure che comporta il ritornare ad essere una persona libera”. Via, via, ci siamo messi d’accordo. Lei ha cominciato a camminare nel giardino e le sue condizioni fisiche spaventose sono lentamente guarite quando è passata dalla condizione di donna legata continuamente a quella di una donna libera che può camminare, parlare, vestirsi, uscire, e così via. Il lavoro che io ho fatto contro il manicomio è stato quello di partire dalla “camera di tortura” e di arrivare alla residenza. Questo sempre nel rispetto delle scelte degli internati e delle loro necessità: non ho mai obbligato nessuno ad uscire se non ne aveva voglia o se non se la sentiva. Anche quando si facevano i viaggi, come ho detto prima, in varie città europee come Venezia, Firenze, Milano, Parigi, Vienna, Strasburgo, venivano soltanto quelli che volevano, quelli che l’avevano scelto individualmente. Dall’ambiente in cui non si è nessuno e non si può scegliere niente si è passati all’ambiente in cui si è considerati una persona che può scegliere senza troppe interferenze altrui. Si è trattato di un capovolgimento completo. Le camere delle internate vennero per esempio abbellite a loro piacimento. Alcune persone trovarono invece sistemazioni esterne al manicomio, si trasferirono in appartamenti. Per esempio, c’erano alcune persone che avevano un rapporto affettivo o amoroso tra di loro che, con l’aiuto del Comune, trovarono degli appartamenti e si sistemarono in essi. Altri tornarono dalle famiglie; chi, invece, rimaneva lì non aveva nessuno fuori, ma viveva in manicomio come in una residenza con i propri oggetti, con le proprie abitudini, con il proprio modo di vestire. Ognuno viveva secondo le proprie scelte.

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