| I due lati della porta dell' ex- manicomio di Imola dipinti di Giuseppe Tradii: http://www.cartedalegare.san.beniculturali.it | 
http://centro-relazioni-umane.antipsichiatria-bologna.net/2011/11/28/intervista-a-giorgio-antonucci-antipsichiatria-clarissa-brigidi-iiparte/
C. B.: Mi può parlare dell’esperienza che ha fatto a 
Imola soprattutto per quanto riguarda la liberazione degli internati  e 
la pratica di autogestione all’interno dei reparti psichiatrici?
G. A.: Io sono arrivato a Imola, come ho già detto, su 
richiesta di Edelweiss Cotti a cui era stata assegnata la direzione 
dell’ospedale psichiatrico Osservanza di Imola, il quale riceveva tutti i
 ricoveri della Romagna. Quando Cotti mi chiamò, io andai a visitare il 
manicomio e tutti i suoi reparti e mi colpì specialmente il reparto 
detto delle agitate donne, di fronte a quello degli agitati uomini. 
Cotti era il direttore del manicomio e a livello teorico aveva delle 
grandi qualità nella critica alla psichiatria visto che aveva letto 
anche Thomas Szasz, però nella pratica non riusciva sempre a entrare in 
rapporto con le persone. In quel periodo si ritrovava direttore di un 
manicomio di milletrecento persone circa, ma nel quale lavoravano 
quindici medici tutti tradizionalisti. Allora mi chiamò; da una parte, 
ero appoggiato da Cotti ma, dall’altra parte, mi trovai contro tutti i 
medici e tutti gli infermieri che sapevano che ero arrivato per cambiare
 le cose. 
Io decisi di fare un’azione che poteva sembrare troppo 
incauta, perché scelsi di lavorare nel reparto che gli altri medici 
consideravano il più pericoloso, il più difficile, il più pesante: il 
reparto 14-donne detto delle “agitate”. Questo per dimostrare, una volta
 che avessi finito di liberare le persone, che se ero riuscito a farlo 
nel reparto più pericoloso, tanto più si poteva operare allo stesso modo
 con le altre. Scelsi di partire dal più difficile per ottenere un 
effetto sul resto dei  medici; così, in riunione, chiesi agli psichiatri
 di dirmi qual’era per loro il reparto più problematico e tutti mi 
risposero il 14. É molto difficile da descrivere l’angoscia che provai 
addentrandomi in questo reparto: si entrava da una porta di ferro, poi, 
ti ritrovavi in un corridoio con delle porte molto spesse di legno e con
 lo spioncino e da dentro le stanze si sentivano le urla delle internate
 che erano tutte legate al letto. Le persone erano quindi chiuse in 
cella e legate ai letti; ce n’erano anche alcune legate agli alberi, 
fuori nel cortile. Si sentivano urla dappertutto, le infermiere giravano
 con grossi mazzi di chiavi perché ovunque c’erano porte e barriere; 
c’erano addirittura gli allarmi da azionare in caso di pericolo per 
richiamare rinforzi. Era una situazione da campo di concentramento nel 
senso più stretto della parola e non so ancora come queste persone 
abbiano fatto a sopravvivere in quelle condizioni. C’erano 
quarantaquattro donne legate ai letti, chiuse nelle rispettive  celle e 
con quattro o più farmaci addosso: tutte erano ridotte male dal punto di
 vista fisico perché l’immobilità sommata agli psicofarmaci è nociva. 
Alcune di queste donne avevano addirittura la maschera di plastica o di 
cuoio:era una cosa orrenda. Dal punto di vista fisico le loro condizioni
 erano preoccupanti; io, infatti non stavo affrontando un problema 
soltanto di liberazione dall’internamento psichiatrico, ma anche il 
problema difficile della difesa della salute perché le donne erano tutte
 in condizioni drammatiche. Presentavano disturbi cardiaci, crisi 
epilettiche, muscoli atrofizzati così io ho dovuto fare il medico nel 
vero senso della parola perché le loro condizioni fisiche erano 
tragiche. Ci tengo a dire questo perché a volte se ne dimenticano che, 
accanto alla mia opera di liberazione, io ho fatto veramente il medico 
come persona che si occupa dei danni e dei disturbi del corpo, delle 
malattie provocate dall’immobilità e dall’intossicazione. Per cui ho 
dovuto lavorare tantissimo, non solo per liberarle, ma anche per 
rimetterle in salute. Se, dopo essere state liberate, sono andate a 
Vienna, al carnevale di Venezia, al Parlamento Europeo, in udienza da 
Giovanni Paolo II, è segno che anche dal punto di vista medico ho fatto 
un buon lavoro perché all’inizio, quando le ho trovate, non erano in 
grado  neanche di camminare per cento metri: non si reggevano in piedi. 
Per fare quest’opera di liberazione, ho cominciato a slegarle una per 
volta e sono stato un mese in reparto, notte e giorno, senza andarmene, 
con qualche momento di riposo passato sempre in reparto. Dovevo far 
capire a queste  persone quello che stavo facendo, perché  le internate 
avevano paura che io le slegassi per poi rilegarle in futuro come erano 
abituate dagli psichiatri. Io, invece, dovevo dimostrare alle internate 
che le avrei slegate definitivamente; d’altra parte si trattava di un 
processo lungo e difficile perché queste donne avevano il terrore di 
qualsiasi cosa. Mi trovavo in una situazione di grande diffidenza non 
solo da parte delle internate, ma anche da parte di tutto il personale. 
Fortunatamente trovai delle infermiere che mi avevano capito e che 
cominciarono ad aiutarmi; d’altra parte il personale era diviso tra chi 
mi voleva seguire e chi mi ostacolava. Era un pandemonio insomma. 
All’inizio del mio lavoro, nel reparto, c’erano le persone ricoverate 
che dovevano piano, piano, capire quello che stava succedendo, oltre al 
personale medico che stentava a collaborare. In più gli altri medici, 
appena mi allontanavo da Imola, scavalcavano il mio lavoro riportando la
 situazione a come era prima che io arrivassi. Ho sempre cercato di fare
 direttamente le cose in modo che le infermiere non dicessero che davo 
ordini difficili e mi prendevo personalmente tutte le responsabilità. 
Slegavo la persona con le mie mani, stavo lì, attento a eventuali 
conseguenze pericolose. E a volte lo erano perché una persona che è 
stata legata per tanto tempo, dopo, come minimo è arrabbiata. Dovevo 
stare lì anche di notte perché la notte è un periodo critico. Per 
esempio se una persona passava una notte inquieta e si ricordava che 
prima la rinchiudevano o la legavano, io stavo accanto a lei tutta la 
notte. Dopo un mese, quando le ebbi slegate tutte, presi tutti i mezzi 
di contenzione, li misi in un sacco e lo consegnai a Cotti, il 
direttore, accompagnato da un biglietto ironico che diceva: «Questi 
strumenti di tortura devono uscire da un reparto ospedaliero». Perché 
consegnarli? Perché fino a che si tengono lì, anche se non si usano, 
hanno ancora una potenzialità terroristica. Io sono stato sempre 
disponibile a discutere con le infermiere e le aiutavo in tutte le 
difficoltà in cui si trovavano, ma non ero certamente disponibile a 
discutere con loro se si dovevano slegare le persone o meno. Come quando
 decisi che le inferriate andavano tolte  perché questo posto doveva 
diventare una residenza e non doveva più essere un carcere. Alcune 
infermiere capirono per fortuna che stava succedendo qualcosa che 
avrebbe migliorato non soltanto la condizione delle ricoverate, ma anche
 la loro: avrebbero smesso di fare le carceriere e incominciato a fare 
un lavoro diverso, di comunicazione umana. Gradualmente le condizioni 
delle internate migliorarono: iniziarono di nuovo a camminare, a uscire 
in giardino, a mangiare regolarmente. Prima che arrivassi io, quando non
 volevano mangiare, le costringevano a farlo con la sonda: era un metodo
 basato sulla forza. C’era anche un altro metodo allucinante detto 
“della strozzina”: quando un’infermiera aveva paura che una persona 
l’aggredisse, un’altra infermiera prendeva la persona in questione alle 
spalle, le metteva attorno al collo un panno bagnato e lo strizzava 
finché la persona cadeva in terra. Io tolsi ogni mezzo di coercizione 
come ogni intervento autoritario. Ho un aneddoto da raccontare per 
dimostrare questo. Una volta dovevo venire a Firenze e avevo 
l’intenzione di partire verso le tre del pomeriggio, ma una persona del 
reparto 14 si mise a sedere nella mia macchina e non se ne voleva 
andare. Le infermiere dissero che l’avrebbero presa con la forza  per  
toglierla dalla macchina. Io mi opposi e partì alla sera tardi quando si
 alzò: questo per dimostrare che io, degli interventi autoritari, non ne
 volevo sapere. Piano, piano, era diminuita la violenza; prima il 
personale picchiava continuamente le persone e naturalmente, nei reparti
 psichiatrici, anche in quelli dove ho lavorato io, le violenze contro 
le giovani donne erano una cosa all’ordine del giorno. Dove ci sono le 
persone che non contano nulla, quelli che sono stati designati dalla 
società per controllarli, ne abusano in tutti i modi. Cotti, vedendo il 
risultato della liberazione, mi chiese di prendere un altro reparto. 
Dopo il reparto 14, passai al 10 donne dove trovai una situazione molto 
simile e perciò procedetti come per il 14. Poi andai al 17 uomini e 
anche lì feci lo stesso lavoro. In seguito, la direzione dei due 
manicomi di Imola diventò unica e io fui chiamato nell’altro manicomio, 
il Lolli, dove arrivavano le persone da Bologna. Lì un po’ di lavoro era
 stato fatto da un medico basagliano che mi aveva preceduto e, dal 
momento che lui aveva stabilito assemblee con gli infermieri, il reparto
 si chiamava Reparto autogestito. Io cercai anche qui di trasformare il 
reparto in una residenza, in cui le persone avevano la chiave delle 
proprie camere e potevano uscire quando lo ritenevano opportuno. Per 
esempio, uno di loro, il pittore (http://centro-relazioni-umane.antipsichiatria-bologna.net/2010/07/02/490/),
 la sera andava a Bologna per divertirsi nei locali notturni. Io gli 
dicevo soltanto che, se gli succedeva qualcosa, doveva avvisare così 
potevamo essergli vicino. Vorrei aggiungere una cosa molto importante: 
io non mi sono mai occupato del pensiero degli internati e cioè non mi 
interessava se qualcuno pensava delle cose “sbagliate” su di sé. Io non 
mi sono occupato di modificare il loro pensiero perché questa cosa  è 
una violenza e non mi sono mai permesso di far cambiare le idee a 
qualcuno. Io mi sono occupato di rendere loro liberi e quindi anche 
liberi di pensare ciò che vogliono. Anche ora, quando mi occupo di 
evitare gli internamenti alle persone, non discuto con loro perché 
cambino il loro pensiero. Piuttosto ci parlo di problemi pratici 
relativi anche alla nostra differenza nel modo di affrontarli. Il 
nocciolo della psichiatria è, invece, modificare il pensiero degli altri
 con la forza. La libertà di pensiero non significa pensare certe cose e
 altre no; anche nella storia della filosofia ci troviamo davanti ad un 
orizzonte di idee differenti una dall’altra e spesso contrastanti. Per 
me il problema  è cominciato non come psichiatra o antipsichiatra, ma 
dall’idea semplice che una persona ha diritto di pensare quello che 
vuole senza che nessuno interferisca. Certamente si può discutere: per 
esempio, se uno mi dice che si sente Carlo Magno io gli posso 
controbattere che ho studiato la storia e che Carlo Magno è vissuto in 
un’altra epoca; allora lui mi potrà ribadire che è una sua 
reincarnazione e così via. Però, costringere una persona ad aderire a 
quello che io ritengo vero è una forma di tirannide. Su questo mi trovo 
d’accordo con Thomas Szasz che mi ha dato anche un premio in cui c’è scritto: « I problemi sociali scambiati per problemi 
psichiatrici offrono illimitate possibilità di tirannide». Nel  premio 
che mi è stato dato, in particolare, c’è scritto: «Per gli eccezionali 
contributi alla lotta contro lo stato terapeutico». Che cos’è lo stato 
terapeutico? È quel tipo di Stato che, attraverso la medicina, vuole 
controllare il pensiero delle persone.
Nessun commento:
Posta un commento