sabato 6 maggio 2017

Intervista a Giorgio Antonucci – Tesi di Laurea di Clarissa Brigidi – II Parte

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I due lati della porta dell' ex- manicomio di Imola dipinti di Giuseppe Tradii: http://www.cartedalegare.san.beniculturali.it

http://centro-relazioni-umane.antipsichiatria-bologna.net/2011/11/28/intervista-a-giorgio-antonucci-antipsichiatria-clarissa-brigidi-iiparte/

C. B.: Mi può parlare dell’esperienza che ha fatto a Imola soprattutto per quanto riguarda la liberazione degli internati  e la pratica di autogestione all’interno dei reparti psichiatrici?

G. A.: Io sono arrivato a Imola, come ho già detto, su richiesta di Edelweiss Cotti a cui era stata assegnata la direzione dell’ospedale psichiatrico Osservanza di Imola, il quale riceveva tutti i ricoveri della Romagna. Quando Cotti mi chiamò, io andai a visitare il manicomio e tutti i suoi reparti e mi colpì specialmente il reparto detto delle agitate donne, di fronte a quello degli agitati uomini. Cotti era il direttore del manicomio e a livello teorico aveva delle grandi qualità nella critica alla psichiatria visto che aveva letto anche Thomas Szasz, però nella pratica non riusciva sempre a entrare in rapporto con le persone. In quel periodo si ritrovava direttore di un manicomio di milletrecento persone circa, ma nel quale lavoravano quindici medici tutti tradizionalisti. Allora mi chiamò; da una parte, ero appoggiato da Cotti ma, dall’altra parte, mi trovai contro tutti i medici e tutti gli infermieri che sapevano che ero arrivato per cambiare le cose.
Io decisi di fare un’azione che poteva sembrare troppo incauta, perché scelsi di lavorare nel reparto che gli altri medici consideravano il più pericoloso, il più difficile, il più pesante: il reparto 14-donne detto delle “agitate”. Questo per dimostrare, una volta che avessi finito di liberare le persone, che se ero riuscito a farlo nel reparto più pericoloso, tanto più si poteva operare allo stesso modo con le altre. Scelsi di partire dal più difficile per ottenere un effetto sul resto dei  medici; così, in riunione, chiesi agli psichiatri di dirmi qual’era per loro il reparto più problematico e tutti mi risposero il 14. É molto difficile da descrivere l’angoscia che provai addentrandomi in questo reparto: si entrava da una porta di ferro, poi, ti ritrovavi in un corridoio con delle porte molto spesse di legno e con lo spioncino e da dentro le stanze si sentivano le urla delle internate che erano tutte legate al letto. Le persone erano quindi chiuse in cella e legate ai letti; ce n’erano anche alcune legate agli alberi, fuori nel cortile. Si sentivano urla dappertutto, le infermiere giravano con grossi mazzi di chiavi perché ovunque c’erano porte e barriere; c’erano addirittura gli allarmi da azionare in caso di pericolo per richiamare rinforzi. Era una situazione da campo di concentramento nel senso più stretto della parola e non so ancora come queste persone abbiano fatto a sopravvivere in quelle condizioni. C’erano quarantaquattro donne legate ai letti, chiuse nelle rispettive  celle e con quattro o più farmaci addosso: tutte erano ridotte male dal punto di vista fisico perché l’immobilità sommata agli psicofarmaci è nociva. Alcune di queste donne avevano addirittura la maschera di plastica o di cuoio:era una cosa orrenda. Dal punto di vista fisico le loro condizioni erano preoccupanti; io, infatti non stavo affrontando un problema soltanto di liberazione dall’internamento psichiatrico, ma anche il problema difficile della difesa della salute perché le donne erano tutte in condizioni drammatiche. Presentavano disturbi cardiaci, crisi epilettiche, muscoli atrofizzati così io ho dovuto fare il medico nel vero senso della parola perché le loro condizioni fisiche erano tragiche. Ci tengo a dire questo perché a volte se ne dimenticano che, accanto alla mia opera di liberazione, io ho fatto veramente il medico come persona che si occupa dei danni e dei disturbi del corpo, delle malattie provocate dall’immobilità e dall’intossicazione. Per cui ho dovuto lavorare tantissimo, non solo per liberarle, ma anche per rimetterle in salute. Se, dopo essere state liberate, sono andate a Vienna, al carnevale di Venezia, al Parlamento Europeo, in udienza da Giovanni Paolo II, è segno che anche dal punto di vista medico ho fatto un buon lavoro perché all’inizio, quando le ho trovate, non erano in grado  neanche di camminare per cento metri: non si reggevano in piedi. Per fare quest’opera di liberazione, ho cominciato a slegarle una per volta e sono stato un mese in reparto, notte e giorno, senza andarmene, con qualche momento di riposo passato sempre in reparto. Dovevo far capire a queste  persone quello che stavo facendo, perché  le internate avevano paura che io le slegassi per poi rilegarle in futuro come erano abituate dagli psichiatri. Io, invece, dovevo dimostrare alle internate che le avrei slegate definitivamente; d’altra parte si trattava di un processo lungo e difficile perché queste donne avevano il terrore di qualsiasi cosa. Mi trovavo in una situazione di grande diffidenza non solo da parte delle internate, ma anche da parte di tutto il personale. Fortunatamente trovai delle infermiere che mi avevano capito e che cominciarono ad aiutarmi; d’altra parte il personale era diviso tra chi mi voleva seguire e chi mi ostacolava. Era un pandemonio insomma. All’inizio del mio lavoro, nel reparto, c’erano le persone ricoverate che dovevano piano, piano, capire quello che stava succedendo, oltre al personale medico che stentava a collaborare. In più gli altri medici, appena mi allontanavo da Imola, scavalcavano il mio lavoro riportando la situazione a come era prima che io arrivassi. Ho sempre cercato di fare direttamente le cose in modo che le infermiere non dicessero che davo ordini difficili e mi prendevo personalmente tutte le responsabilità. Slegavo la persona con le mie mani, stavo lì, attento a eventuali conseguenze pericolose. E a volte lo erano perché una persona che è stata legata per tanto tempo, dopo, come minimo è arrabbiata. Dovevo stare lì anche di notte perché la notte è un periodo critico. Per esempio se una persona passava una notte inquieta e si ricordava che prima la rinchiudevano o la legavano, io stavo accanto a lei tutta la notte. Dopo un mese, quando le ebbi slegate tutte, presi tutti i mezzi di contenzione, li misi in un sacco e lo consegnai a Cotti, il direttore, accompagnato da un biglietto ironico che diceva: «Questi strumenti di tortura devono uscire da un reparto ospedaliero». Perché consegnarli? Perché fino a che si tengono lì, anche se non si usano, hanno ancora una potenzialità terroristica. Io sono stato sempre disponibile a discutere con le infermiere e le aiutavo in tutte le difficoltà in cui si trovavano, ma non ero certamente disponibile a discutere con loro se si dovevano slegare le persone o meno. Come quando decisi che le inferriate andavano tolte  perché questo posto doveva diventare una residenza e non doveva più essere un carcere. Alcune infermiere capirono per fortuna che stava succedendo qualcosa che avrebbe migliorato non soltanto la condizione delle ricoverate, ma anche la loro: avrebbero smesso di fare le carceriere e incominciato a fare un lavoro diverso, di comunicazione umana. Gradualmente le condizioni delle internate migliorarono: iniziarono di nuovo a camminare, a uscire in giardino, a mangiare regolarmente. Prima che arrivassi io, quando non volevano mangiare, le costringevano a farlo con la sonda: era un metodo basato sulla forza. C’era anche un altro metodo allucinante detto “della strozzina”: quando un’infermiera aveva paura che una persona l’aggredisse, un’altra infermiera prendeva la persona in questione alle spalle, le metteva attorno al collo un panno bagnato e lo strizzava finché la persona cadeva in terra. Io tolsi ogni mezzo di coercizione come ogni intervento autoritario. Ho un aneddoto da raccontare per dimostrare questo. Una volta dovevo venire a Firenze e avevo l’intenzione di partire verso le tre del pomeriggio, ma una persona del reparto 14 si mise a sedere nella mia macchina e non se ne voleva andare. Le infermiere dissero che l’avrebbero presa con la forza  per  toglierla dalla macchina. Io mi opposi e partì alla sera tardi quando si alzò: questo per dimostrare che io, degli interventi autoritari, non ne volevo sapere. Piano, piano, era diminuita la violenza; prima il personale picchiava continuamente le persone e naturalmente, nei reparti psichiatrici, anche in quelli dove ho lavorato io, le violenze contro le giovani donne erano una cosa all’ordine del giorno. Dove ci sono le persone che non contano nulla, quelli che sono stati designati dalla società per controllarli, ne abusano in tutti i modi. Cotti, vedendo il risultato della liberazione, mi chiese di prendere un altro reparto. Dopo il reparto 14, passai al 10 donne dove trovai una situazione molto simile e perciò procedetti come per il 14. Poi andai al 17 uomini e anche lì feci lo stesso lavoro. In seguito, la direzione dei due manicomi di Imola diventò unica e io fui chiamato nell’altro manicomio, il Lolli, dove arrivavano le persone da Bologna. Lì un po’ di lavoro era stato fatto da un medico basagliano che mi aveva preceduto e, dal momento che lui aveva stabilito assemblee con gli infermieri, il reparto si chiamava Reparto autogestito. Io cercai anche qui di trasformare il reparto in una residenza, in cui le persone avevano la chiave delle proprie camere e potevano uscire quando lo ritenevano opportuno. Per esempio, uno di loro, il pittore (http://centro-relazioni-umane.antipsichiatria-bologna.net/2010/07/02/490/), la sera andava a Bologna per divertirsi nei locali notturni. Io gli dicevo soltanto che, se gli succedeva qualcosa, doveva avvisare così potevamo essergli vicino. Vorrei aggiungere una cosa molto importante: io non mi sono mai occupato del pensiero degli internati e cioè non mi interessava se qualcuno pensava delle cose “sbagliate” su di sé. Io non mi sono occupato di modificare il loro pensiero perché questa cosa  è una violenza e non mi sono mai permesso di far cambiare le idee a qualcuno. Io mi sono occupato di rendere loro liberi e quindi anche liberi di pensare ciò che vogliono. Anche ora, quando mi occupo di evitare gli internamenti alle persone, non discuto con loro perché cambino il loro pensiero. Piuttosto ci parlo di problemi pratici relativi anche alla nostra differenza nel modo di affrontarli. Il nocciolo della psichiatria è, invece, modificare il pensiero degli altri con la forza. La libertà di pensiero non significa pensare certe cose e altre no; anche nella storia della filosofia ci troviamo davanti ad un orizzonte di idee differenti una dall’altra e spesso contrastanti. Per me il problema  è cominciato non come psichiatra o antipsichiatra, ma dall’idea semplice che una persona ha diritto di pensare quello che vuole senza che nessuno interferisca. Certamente si può discutere: per esempio, se uno mi dice che si sente Carlo Magno io gli posso controbattere che ho studiato la storia e che Carlo Magno è vissuto in un’altra epoca; allora lui mi potrà ribadire che è una sua reincarnazione e così via. Però, costringere una persona ad aderire a quello che io ritengo vero è una forma di tirannide. Su questo mi trovo d’accordo con Thomas Szasz che mi ha dato anche un premio in cui c’è scritto: « I problemi sociali scambiati per problemi psichiatrici offrono illimitate possibilità di tirannide». Nel  premio che mi è stato dato, in particolare, c’è scritto: «Per gli eccezionali contributi alla lotta contro lo stato terapeutico». Che cos’è lo stato terapeutico? È quel tipo di Stato che, attraverso la medicina, vuole controllare il pensiero delle persone.

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