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LA GRANDE GUERRA ELETTRICA (1914-1918)
Morire quando
si è ancora giovani e si anno ancora delle speranze è follia,
ed io non
sono folle affatto.
(Lettera del disertore Ernesto Premoli, dal campo di
prigionia di Theresienstadt, 24 ottobre 1915)
L’elettroshock,
ossia quel «trattamento psichiatrico con il quale viene applicata alla testa
del paziente una corrente elettrica che, passando attraverso il cervello,
produce una convulsione generalizzata»[1], è
stato notoriamente ideato, sperimentato e introdotto ad opera di Ugo Cerletti e
Lucio Bini nel 1938, tanto da essere celebrato dalla propaganda del regime
fascista come invenzione «italianissima». Per cui, è improprio e anacronistico
definire come elettroshock l’accertato utilizzo “terapeutico” di correnti elettriche
su parti diverse del corpo, così come avvenuto durante la Prima guerra mondiale nei
confronti di un certo numero di soldati appartenenti agli eserciti austriaco,
tedesco, britannico, francese e italiano, per il trattamento delle nevrosi di
guerra, oltre che per smascherare presunti «simulatori», ossia di soldati che
cercavano scampo alla morte in trincea «facendo i matti»; ma comunque questo
aspetto - anche se poco conosciuto - appartiene alla realtà del primo conflitto
e anticipò quanto sarebbe avvenuto, sistematicamente, durante la Seconda guerra mondiale
quando «l’elettroshock inventato da Ugo Cerletti diventò così la terapia usata
per scovare le epilessie sospette ovvero la patologia, a detta di molti
alienisti, prescelta dai simulatori»[2].
Anche questa
«guerra nella guerra» tra «simulatori» e alienisti (simile a quella che abbiamo
visto ingaggiarsi con gli autolesionisti), costituisce un capitolo di
straordinaria importanza nella storia del conflitto. I compiti disciplinari si
intrecciano con quelli terapeutici e li sopravanzano. Per i medici infatti non
si tratta solo di «scoprire che un tale è un simulatore: il medico ha un
compito più nobile, deve restituire all’esercito un soldato, alla Patria un
cittadino»[3]. E,
tal fine, il ricorso all’impiego di correnti faradiche o «correnti sinusoidali
di gran forza» - secondo le teorie di F. Kaufmann - applicate a varie parti del
corpo (arti, collo, gola, genitali) diventa pratica largamente diffusa.
D’altronde,
nel ricorso a quella che si configura come vera e propria tortura psico-fisica,
il confine tra indagine medico-legale e terapia appare davvero esile, dato che
per curare disturbi di ordine «sensitivo-sensoriale e sensorio-motorio», il
metodo suggerito da un autore francese consiste «nell’applicare a scopo
suggestivo forti e brusche scariche di corrente faradica. Quando si vuole
ottenere la guarigione di tali disturbi (afonie, tremori, paralisi, piegatura
vertebrale, piede equino ecc.) bisogna agire precocemente e fortemente»[4].
Onde evitare residui
scrupoli morali o incertezze deontologiche in relazione alla «dolorabilità del
processo», il prof. Arturo Morselli, capitano medico della III Armata sul
fronte isontino, precisava che bastava «un comune apparecchio portatile a pile,
che non sveglia poi sensazioni troppo vive e che è sufficiente per
suggestionare i soggetti; anzi, per conseguire meglio l’effetto, è utile
esagerare prima agli esaminandi la sofferenza che andranno a sopportare. In
molti simulatori questa prospettiva vale a farli cedere di buon’ora». A tale
scopo Morselli si era fatto spedire dalla Clinica di Genova «un apposito
strumentario elettro-terapico (faradizzazione a doppio rullo)» che sperimentò
su soldati colpiti da qualunque tipo di problema neuropsichiatrico[5].
Dolore e
terrore quindi - come sottolinea A. Gibelli - sono dunque parte delle pratiche
mediche di investigazione e recupero, tanto che sempre Morselli confermava come
«La pratica del Gilles è stata usata da me fin dai primi mesi della nostra
guerra e mi ha dato sempre eccellenti risultati terapeutici e medico legali». In
realtà, le rare testimonianze dei pazienti sono di altro segno, come quella del
soldato Giovanni P. che scrive «C’era il professore, un capitano con la barba
di cui non so il nome, e poi c’era il Signor Maggiore che mi ha straziato con
la tortura elettrica ora».
Analogamente,
in Germania, il metodo Kaufmann che combinava scariche elettriche, sempre più
intense, con comandi urlati per l’esecuzione di determinati esercizi, se vantò
alcune “guarigioni” evidenziò i suoi limiti per il carattere temporaneo di
queste, l’elevato numero di suicidi dei pazienti sottoposti a tale cura e la
morte di almeno di due di questi in sede di terapia.
Nel Regno Unito,
il più fervido propugnatore ed esecutore di elettro-terapie disciplinari fu
Lewis Yealland che, tra l’altro, descrisse dettagliatamente l’atroce
trattamento a cui sottopose un soldato che, dopo essere scampato alle numerose
battaglie a cui aveva preso parte, era stato affetto da mutismo.
Il poveretto,
quando venne consegnato a Yealland, era già stato sottoposto a inutili “sedute”
di venti minuti di forti applicazioni elettriche al collo e alla gola,
combinate a ustioni sulla lingua tramite sigarette e pinze roventi; da parte
sua, il medico-aguzzino britannico vi aggiunse la segregazione al buio nella
«camera elettrica» e un supplemento di inumano autoritarismo, accompagnato a
scariche ad alto voltaggio applicate al collo, che lo avrebbero fatto tornare
«sobrio e razionale»[6].
Non meno
attiva fu la «scuola viennese» di psichiatria militare - duramente accusata dallo
psicanalista Alfred Adler - che, per spiegare le sofferenze psichiche e le
nevrosi belliche, sosteneva la predisposizione patologica o degenerativa dei
militari vittime di stress o shock. In particolare, nell’esercito
austro-ungarico ad essere sottoposti a terapie elettriche furono soprattutto i
soldati semplici e, soprattutto, quelli di nazionalità-lingua non tedesca, dal
momento che molti psichiatri militari, a fronte della molteplicità linguistica
dei soldati ammalati, privilegiarono una terapia che non richiedeva scambio
verbale. L’obiettivo primario rimaneva comunque, oltre che smascherare i
«simulatori», recuperare e rinviare al fronte i soggetti colpiti da nevrosi di
guerra[7].
Dell’impiego
sistematico di tale metodo nell’esercito austriaco se ne ha persino
un’impietosa descrizione letteraria, presente nei Diari di R. Musil: «Faradizzazione. Sospetto di simulazione, il
giovanotto viene faradizzato ogni giorno. Uh uh uh uh ahioiah iah – si dimena.
Un inserviente quattro infermiere gli
stanno intorno ridendo, gli tengono le braccia e le gambe e gli premono addosso
i contatti - Egli fa smorfie come se ridesse».
Riguardo l’utilizzo
nell’esercito italiano, «a scopo suggestivo», delle correnti faradiche si ha
riscontro in una relazione del tenente medico Domenico Isola, nel 1917, dove si
apprende che «Nei casi di simulazione, non è difficile, generalmente, scoprire
la malafede […] la sistematica ripetizione delle manovre elettro-terapiche
riesce in genere a far presto capitolare il simulatore, il quale difficilmente
resiste a lungo nella sua commedia. Il graduale aumento della corrente sino a
stimoli irresistibili (pennello faradico) ci offre il mezzo per domare anche i
più ostinati, i quali in preda a quel dolore, del resto innocuo e ben
graduabile a volontà del medico, non riescono a frenare un grido, ad una
qualche esclamazione, che basta a svelare l’inganno»[8]. Anche
in Italia, nel ricercare i motivi scatenanti del trauma di combattimento, la
psichiatria scartò quasi a priori il ricorso a diagnosi che facessero
riferimento al carattere peculiare della guerra, optando per la struttura
psichica e costituzionale del soggetto determinata da «tare ereditarie», pur se
le stesse cifre ufficiali dei «traumatizzati psichici» smentiscono tale tesi: i
soldati italiani ricoverati in cliniche (se ufficiali) e manicomi (per la
truppa) furono circa 40.000 e di questi, alla fine del conflitto, almeno 5.000
furono quelli ritenuti definitivamente «alienati mentali». Soltanto sul finire
della guerra, si dovette ammettere almeno un carattere «degerogeno» connesso
all’esperienza bellica e, come ebbe a scrivere l’illustre alienista Ferdinando
Cazzamalli, che questa era una «fucina di traumatizzati»[9].
Inoltre,
nel caso italiano, è stato osservato come, oltre a caratterizzare la
sperimentazione di nuove tecniche terapeutiche quali quelle elettriche, sistema
favorito per scoprire la simulazione del mutismo, tramite «l’applicazione di
correnti faradiche allo scroto» (metodo ideato dall’italiano C. Negro), tale
«condizione di violenza» connotò anche la struttura dei «villaggetti
psichiatrici» realizzati a ridosso del fronte[10].
Diserzione e
follia erano ugualmente considerate negazione del militarismo e chi sfuggiva
alle mitragliatrici non doveva scampare agli psichiatri in uniforme.
Marco Rossi
Livorno, dicembre 2015
[1] Tale
definizione tecnica è quella formulata dallo psichiatra statunitense Peter
Breggin nel 1979, ripresa in Collettivo Antipsichiatrico Antonin Artaud, Elettroshock.
La storia delle terapie elettroconvulsive e i racconti di chi le ha vissute,
Roma, Sensibili alle Foglie, 2014, p. 29.
[2]
Massimo Tornabene, Psichiatria e manicomi
fra fascismo e guerra, in Andrea Giuntini (a cura di), Povere menti. La cura della malattia mentale nella provincia di Modena
tra Ottocento e Novecento, Modena, Provincia di Modena, 2009, p. 51.
[3]
Espressione usata a commento di uno studio di autori francesi nella recensione
redazionale comparsa su «Quaderni di psichiatria», 1918, p. 282. riportata nel
fondamentale saggio di Antonio Gibelli, L’officina
della guerra. La Grande Guerra
e le trasformazioni del mondo mentale, Torino, Bollati Boringhieri, 1998,
p. 155.
[4] Da una recensione di Arturo Morselli, in «Quaderni di
psichiatria», 1917, p. 270; in tale scritto si fa riferimento a tali terapie e
studi compiuti in Francia, finalizzati alla «rieducazione della volontà»
(l’espressione è di Celine), ma anche in Austria e Germania, nello stesso periodo,
venivano utilizzati identici metodi terapeutici e sulle più importanti riviste
psichiatriche erano teorizzati i medesimi trattamenti, sommando l’effetto
doloroso delle correnti faradiche a quello terroristico enfatizzato dal
personale medico.
[5] Cfr.
Ilaria La Fata, Follie di guerra. Medici e soldati in un manicomio
lontano dal fronte (1915-1918), Milano, Unicopli, 2014.
[6] La
descrizione dei metodi Kaufmann e Yealland si trova in Eric J. Leed, Terra di nessuno. Esperienza bellica e
identità personale nella prima guerra mondiale, Bologna, Il Mulino, 1985,
pp. 229-232.
[7]
Cfr. Christa Hàmmerle, «Eroi sacrificali»? Soldati austro-ungarici sul fronte sud, in
Nicola Labanca, Oswald Überegger (a cura di), La guerra italo-austriaca (1915-18), Bologna, Il Mulino, 2014, pp.
156, 157.
[8]
Tratto dall’articolo, dello stesso Isola, Sul
trattamento razionale del mutismo e sordo-mutismo isterico, in «Quaderni di
psichiatria», 1917, pp. 214, 215. Parte del testo è presente nel già citato
saggio di Antonio Gibelli ed è stato ripreso nel documentario 1914-1918 La Grande Guerra. Non
c’è solo la vittoria, Milano, RAI – Corriere della Sera, n. 13, 2014.
[9] Cfr.
Paolo Giovannini, Guerra e psichiatria
dal primo al secondo conflitto mondiale, «Storia e problemi contemporanei»,
n. 43, settembre 2006.
[10] Cfr.
Paolo Sorcinelli, Viaggio nella storia
sociale, Milano, Bruno Mondadori, 2014.
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