lunedì 31 dicembre 2018

Guida al TSO a cura del Collettivo Antipsichiatrico Francesco Mastrogiovanni di Torino

Foto tratta da: http://www.umanitanova.org/

Abbiamo deciso di realizzare questa piccola guida al TSO - il trattamento sanitario obbligatorio - per aiutare concretamente chi finisce in repartino, chi ha persone care imprigionate a capire meglio questo dispositivo mostruoso, un cocktail tra prigione e ospedale, dove l'istituzione politica e quella psichiatrica hanno il potere di disporre della libertà di uomini e donne sulla base del pregiudizio psichiatrico che marchia i comportamenti bollati come fuori norma, ma non sanzionati dalla legge.
Il collettivo antipsichiatrico "Francesco Mastrogiovanni" nasce dall'incontro di persone diverse che hanno sentito l'urgenza di dar voce, corpo e forza alla propria indignazione. La vicenda di Francesco, morto dopo quattro giorni di contenzione fisica e farmacologica, nel repartino psichiatrico dell'ospedale di Vallo della Lucania, è stata il detonatore che ha dato l'impulso per costruire un percorso di informazione e lotta, che mirasse e mettere i bastoni tra le ruote ad una macchina disciplinare feroce.


Chi era Francesco Mastrogiovanni?
Il 31 luglio 2009 a Francesco viene imposto un TSO - trattamento sanitario obbligatorio. Francesco fa il maestro elementare, in quei giorni è in vacanza. Lo accusano di aver tamponato alcune auto: invece della multa, il repartino. Per eseguire il "ricovero" mandano decine di carabinieri armati di tutto punto. Francesco ha su di se il marchio dell'anarchico. Era da anni nel mirino degli uomini in divisa, degli uomini al servizio dello Stato. In un rapporto di polizia venne definito "incompatibile ai carabinieri", uno che canta "canzoni sovversive". Basta a dichiararlo matto, torturandolo a morte. Viene sedato pesantemente e legato al letto: le mani in alto, i piedi in basso. Crocefisso. Viene lasciato lì, senza cibo, senza acqua, senza "cure". Griderà di dolore, ma nessuno lo ascolterà: sanguina dalle profonde ferite ai polsi inflitte dai legacci. Man mano la voce di Franco si farà più flebile, nella sete di aria dell'agonia. Verrà liberato 92 ore dopo, quando era morto da quasi sei. I suoi parenti non potranno vederlo né avere sue notizie. Solo la loro caparbietà a non credere alle bugie dei medici ha fatto sì che questo crimine non passasse sotto silenzio. L'agonia di Francesco venne ripresa minuto per minuto dalla telecamera dell'ospedale. Al processo di primo grado che si è concluso a fine ottobre del 2012, i medici sono stati condannati, gli infermieri assolti. Non siamo giustizialisti: le sentenze che privano della libertà qualcuno non ci fanno gioire. La giustizia che vogliamo è quella che elimina le sbarre e i legacci, che chiude con gli orrori della psichiatria, in un mondo senza carabinieri.  Sì, perché anche noi, come l'anarchico Mastrogiovanni assassinato dalla psichiatria e dalle forze dell'ordine, siamo, inguaribilmente, "incompatibili con i carabinieri". Il caso di Francesco è la punta di un iceberg enorme, ma spesso invisibile. A quarant'anni dalla chiusura dei manicomi la psichiatria continua a torturare e, qualche volta, anche a uccidere. In parlamento sono state a più riprese presentate proposte di legge per far riaprire le prigioni per i "matti", discariche sociali per contenere e reprimere gli incompatibili.
Ci muove un'indignazione profonda. L'indignazione di chi sa che nel nostro paese basta la firma di un medico, quella di un sindaco ed il gioco è fatto. Uomini e donne smettono di essere uomini e donne, liberi di scegliere la propria vita, liberi di decidere se assumere o meno dei farmaci, liberi di scegliere una cura.
Uomini e donne vengono presi con la forza, rinchiusi in un repartino psichiatrico, riempiti di psicofarmaci e spesso legati ai letti. Prigionieri senza possibilità di parola, perché la parola di chi finisce in repartino è parola alienata. In tutti i significati. Parola priva di senso, parola privata di senso perché chi parla non è ragionevole. Non è ragionevole, perché la ragione è fuori dal repartino, perché la ragione è solo del potere che imprigiona, lega con corde chimiche e di cotone. I manicomi sono stati le discariche sociali per gli incompatibili, quelli che la legge non riusciva a perseguire, ma anomali per la società dove vivevano, incapaci di svolgere il ruolo loro assegnato. La fine della follia criminale rappresentata dal manicomio non è stata però la fine della follia, come categoria/catena da usare contro chi non vive con agio la propria vita. Un disagio che sarebbe sciocco negare, ma è criminale imprigionare. Eppure è quello che avviene ogni giorno in questo paese con i TSO, i trattamenti sanitari obbligatori. Il marchio della follia rende normale quello che normale non è. Chi è folle è "fuori". Fuori di testa, fuori dal consesso umano, fuori dalle regole, che formalmente ne tutelano l'integrità fisica e la libertà. Chi oggi lavora per la riapertura dei manicomi - piccoli privatizzati ma sempre manicomi - fa leva sul radicamento tenace del pregiudizio psichiatrico, tanto tenace da essere ancora saldamente impiantato nel lessico comune. Per sconfiggerlo serve informazione, serve anche azione diretta contro gli abusi. Noi non vogliamo dire alle persone come devono vivere, non siamo medici e nemmeno giuristi, siamo solo persone disponibili ad offrire appoggio alle vittime della psichiatria, a chi i farmaci non li vuole, a chi viene ricoverato, legato, dopato contro la propria volontà. Ci auguriamo che questa nostra guida possa essere utile a chi incappa nelle maglie della psichiatria.

I compagni e le compagne del collettivo antipsichiatrico "Francesco Mastrogiovanni".

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Cos'è il TSO?
In Italia gli accertamenti e i trattamenti in materia di psichiatria sono di norma volontari (art.1, comma 1, 833/1978), per cui nessuno può essere sottoposto a ricoveri e cure senza il suo espresso consenso.
Il TSV (Trattamento sanitario volontario) viene effettuato su richiesta del paziente che, nel periodo del ricovero, gode di tutta una serie di diritti, molto simili a quelli di tutti i malati non-psichiatrici: l'individuo non può essere sottoposto a ricoveri o cure psichiatriche senza il suo consenso; può rifiutare la visita psichiatrica e le terapie; può richiedere di essere informato sul tipo di cura a cui è sottoposto e può decidere di interromperla; può essere dimesso dalla struttura psichiatrica qualora lo voglia, come in ogni altro reparto ospedaliero; può comunicare con chi vuole; può disporre liberamente di ciò che gli appartiene, compresi i soldi. 
La legge stabilisce però dei casi in cui il ricovero può essere eseguito coattivamente e contro la volontà dell'individuo. Il TSO (Trattamento Sanitario Obbligatorio) è previsto agli articoli 33, 34, 35 della legge italiana del 23 dicembre 1978 n. 833 con lo scopo dichiarato di somministrare cure e terapie all'interno di un reparto di psichiatria di un ospedale pubblico (SPDC) ad un soggetto affetto da "malattia mentale". In linea di principio il TSO è dunque la misura coattiva che scatta nel momento in cui non è possibile eseguire, da parte delle autorità mediche, il Trattamento Sanitario Volontario, ovvero quando il soggetto "malato" rifiuta la terapia e l'ospedalizzazione.
Per quanto riguarda il procedimento amministrativo la differenza maggiore tra TSV e TSO risiede nel fatto che nel primo il paziente dà il suo consenso alle cure, mentre nel secondo qualcun'altro lo fa per lui, certificando lo stato di necessità di tale intervento.

L'ASO (Accertamento sanitario obbligatorio), consiste in una visita obbligatoria per un paziente che non accetti di sottoporsi volontariamente ad una visita medica, per il quale si abbia il fondato sospetto di alterazioni psichiche tali da rendere urgente un intervento terapeutico. A far partire il provvedimento è un medico - dell'Ufficio di Igiene Mentale ma anche un medico di famiglia -, che compila una richiesta che viene poi consegnata al sindaco, che con sua ordinanza attiva il provvedimento, nei casi urgenti entro 2 giorni, in quelli non urgenti al massimo 7 giorni. L'ordinanza di ASO deve essere eseguita entro 48 ore, altrimenti non è più valida serve una nuova proposta.
A differenza del TSO, l'ASO non prevede quindi la convalida da parte di un secondo medico né la notifica dell'ordinanza al giudice tutelare. Le motivazioni necessarie per completare la documentazione sono:
- la necessità urgente di una (prima o ennesima) valutazione psichica al fine di valutare la necessità di un trattamento psichiatrico, quando lo psichiatra non è riuscito a visitare il cittadino a causa di un suo rifiuto attivo (allontanamento al momento dell'incontro, chiusura e rifiuto di permettere il contatto, non disponibilità a concordare appuntamenti associata o meno a ripetute irreperibilità);
- nel caso in cui, pur avendo potuto visitare il paziente in qualità di medico proponente il TSO, non sia stato in grado di attivare una seconda visita per la convalida prevista dalla legge
- quando il medico generico, dopo aver visitato il cittadino, ritenga necessaria una valutazione specialistica psichiatrica, che l’interessato rifiuta.
La proposta motivata contiene anche indicazioni sul luogo più opportuno per l'esecuzione della visita, che in linea generale è praticata presso un servizio territoriale, in primo luogo nel CSM (Centro di salute mentale), ma può anche succedere avvenga in un ambulatorio di medicina generale, o presso il domicilio del paziente o al Pronto soccorso del presidio ospedaliero. Viste le motivazioni che portano all'A.S.O è molto probabile che si arrivi ad a un ricovero.
Nel caso il paziente accetti le "cure" sarà un TSV; in caso di rifiuto un TSO. Nella maggior parte dei casi il paziente viene trasportato, spesso coattivamente, presso il più vicino reparto psichiatrico.

Come funziona il TSO?

Un medico qualsiasi propone al Sindaco del comune di residenza (o presso cui ci si trova) di disporre il Trattamento attraverso un provvedimento, che deve essere firmato dal Sindaco o da un suo delegato entro 48 ore dalla richiesta e inviato al giudice tutelare (operante nelle preture), che può convalidarlo o meno. Un altro medico, di solito uno psichiatra appartenente alla struttura ospedaliera pubblica dove avviene il ricovero, deve convalidare la richiesta fatta dal primo. Entrambi i medici devono visitare il soggetto e dichiarare che lo stesso:

1 - presenta alterazioni psichiche tali da necessitare interventi terapeutici urgenti;

2 - rifiuta cure e terapie;

3 - non possa essere assistito in altro modo rispetto al ricovero ospedaliero Perché la richiesta di ricovero sia valida devono sussistere tutte e tre le condizioni, quindi non può essere ricoverato coattivamente, ad esempio, chi afferma di accettare la terapia.

Va sottolineato inoltre che il TSO non è valido se i medici che certificano la situazione di urgenza non hanno visto, né visitato la persona, pratica molto comune soprattutto per quelle persone già conosciute delle forze dell'ordine e dai medici come "malati mentali", o in risposta a pressioni fatte da familiari e dall'opinione pubblica su medici di famiglia e Sindaco (specie nei piccoli comuni). In questi casi, oltre alla nullità del provvedimento, esistono gli estremi del reato di falso in atto pubblico.

Come funziona il TSO?

Il TSO dura 7 giorni e può essere rinnovato per ulteriori 7 giorni attraverso la richiesta di un medico del repartino, di solito il primario, al Sindaco e poi convalidata dal giudice tutelare. Dopo aver descritto che cosa sono e come funzionano sulla carta, e prima di parlare dei diritti riconosciuti al paziente e delle strategie che esso può adottare per uscire o quanto meno per denunciare quello che ha vissuto, è necessario scendere per un momento dalla "carta" alla "realtà", dalla forma della legge alla sua concreta applicazione.

La procedura che porta al TSO in quasi tutti i casi non viene rispettata sia per l'iter contorto, sia per la negligenza del personale amministrativo e medico ma soprattutto per l'impunità di cui questi godono, tanto più se in relazione a pratiche psichiatriche.
Un altro aspetto da evidenziare è l'arbitrarietà dei procedimenti che vengono messi in atto a ogni livello di un TSO. La presa in carico coercitiva propria dell'SPDC si basa sul fatto che il paziente "presenta alterazioni psichiche tali da necessitare interventi terapeutici urgenti": questa constatazione spetta a un primo medico e poi a uno psichiatra, i quali dovrebbero entrambi accertarsi anche che il paziente "rifiuta la terapia" e che "non possa essere assistito in altro modo". La "necessità" dell'intervento può essere determinata da diversi criteri. Si va da comportamenti bollati come devianti e antisociali, quando una persona dà di matto in pubblico, quando c'è un rischio per la propria o altrui l'incolumità, ma anche più semplicemente disturbando l'ordine pubblico e la normalità delle relazioni sociali. Un altro modo tipico di essere proposti per un TSO è la segnalazione di qualcuno con cui si è a stretto contatto, quasi sempre un familiare, che, per incapacità di gestire la situazione (che a volte può essere veramente difficile da affrontare), o per interesse, disinteresse o disinformazione, chiama l'ambulanza o le forze dell'ordine se non addirittura accompagna in ospedale la persona in difficoltà.
Non dimentichiamo che i TSO non rispondono mai ad un'esigenza sanitaria, ma sempre a problemi di conflittualità intrafamiliare o di ordine pubblico. Una volta in ospedale, lo psichiatra dovrebbe accertarsi nuovamente dei tre presupposti, ma a questo punto è troppo tardi. É troppo tardi perché il sindaco si possa informare realmente sulla situazione ed è troppo tardi perché si possa trovare una soluzione alternativa, per cui al massimo il paziente potrà accettare la terapia ed entrare in regime di TSV. L'aspetto che rende più esplicita l'equiparazione tra TSO e Manicomio, è il ricatto senza via d'uscita posto ai pazienti-internati-medicati. Vuoi essere dimesso dal TSV prima che i medici lo decidano? Dichiari di essere guarito e di stare bene? Osi denunciare il tuo disagio e l'inutilità o finanche la sofferenza del trattamento? La maggioranza degli psichiatri in servizio ti risponderà che se non stai buono e pieghi la testa alla cura e quindi alla malattia che ti hanno diagnosticato il modulo di Trattamento Obbligatorio con sopra il tuo nome è pronto per essere firmato.

Farmaci
Nei repartini è diffusissima la somministrazione di farmaci neurolettici. Questa tipologia di farmaci è considerata dagli stessi psichiatri una "camicia di forza chimica", che annienta la volontà di chi li assume, blocca quasi tutti i pensieri e i movimenti, annulla in maniera indiscriminata, temporaneamente o permanentemente, molti aspetti della personalità, anche quelli socialmente accettati. Sebbene l'entrata in reparto psichiatrico sia giustificata da una crisi dovuta a "malattia mentale", la terapia a base di uno o più farmaci Neurolettici a cui si viene sottoposti, non fa altro che sedare questa crisi arrecando gran danno al paziente. Questi farmaci (non solo quindi) fanno insorgere nuovi sintomi, che verranno letti dal paziente stesso e dai medici come sintomi della malattia, provocano anche dipendenza e un'invalidità che deve essere gestita nei mesi e negli anni seguenti al trattamento, rafforzando la camicia di forza chimica, il controllo e la dipendenza dagli psichiatri.
Tra i farmaci ansiolitici più utilizzati nei repartini ci sono le benzodiazepine (BDZ) che, come gli altri tranquillanti minori, sono piuttosto diffusi per la loro azione depressiva sul sistema nervoso centrale e quindi anche sul comportamento.
In generale questa tipologia di farmaci ha effetto di stordimento e disinibizione gradito ai consumatori, tranquillizzano, pacificano, rilassano i muscoli, aiutano a convivere con problemi, paure, stress, dispiaceri, frustrazione e irrequietezza. Gli effetti specifici delle BDZ sono di ridurre l'ansia, indurre il sonno e rilassare la muscolatura. Oltre agli effetti collaterali comunemente riscontrati con l'utilizzo di tranquillanti minori, le benzodiazepine possono provocare aumento dell'appetito con probabilità di ingrassare, amenorrea, impotenza, convulsioni. Il problema più grande con le BDZ è la veloce assuefazione che creano in chi le assume e la forte dipendenza che generano fin dall'inizio della terapia, motivo per cui ne sarebbe fortemente sconsigliato l'uso prolungato.

Quali diritti formali in TSO?
Provare ad opporsi al giudizio psichiatrico all'interno di una struttura psichiatrica sembra essere qualcosa di davvero impossibile, ma ci si può comunque opporre allo spossessamento di se stessi messo in atto dall'istituzione psichiatrica, che, oltre a vedere il paziente come puro oggetto della cura - come anche negli altri campi della medicina - giudica il paziente incapace di compiere delle scelte e formulare dei giudizi sensati. In questo modo l'istituzione, incarnata da medici e infermieri, prende possesso di intere settimane di vita della persona, etichettandola come "malata", quasi mai per atti illegali per i quali si viene condannati, come nel sistema penale, ma per la presenza di una qualche "malattia" da curare o meglio - da gestire per farla rientrare nella "normalità" della vita del paziente. Per non rimanere intrappolati nelle maglie della psichiatrica e subirne l'arbitrio e gli abusi, è fondamentale conoscere la situazione in cui ci si trova, quali sono i limiti legali posti ai medici, quali sono le richieste che si possono avanzare, quali sono i modi per non essere indifesi di fronte alle affermazioni e alle imposizioni della pratica psichiatrica. Altra cosa fondamentale è avere qualcuno fuori, una persona amica che ci appoggia e a cui poter comunicare le proprie condizioni senza vergogna per quello che sta accadendo, che si faccia vedere in reparto, e che all'occorrenza possa intervenire per vie legali.

Quali diritti formali abbiamo in regime di TSO?
1. abbiamo diritto alla NOTIFICA del provvedimento di TSO. In assenza di questa notifica nessuno può obbligarci a seguirlo o ad assumere terapie. Sono esclusi i casi di comportamenti penalmente rilevanti e quelli in cui si ravvisino gli estremi dello stato di necessità, concetto vago e difficile da definire.

2. abbiamo diritto a presentare RICORSO avverso al TSO al Sindaco che lo ha disposto, che deve risponderci entro 10 giorni. Il ricorso può essere proposto anche da chi ne ha interesse (familiari, amici, collettivi e associazioni, etc.). Per ridurre i tempi conviene inviarne copia al Giudice Tutelare, specie se il ricorso parte entro le prime 48 ore dal ricovero (quando presumibilmente non ha ancora convalidato il provvedimento).

3. abbiamo diritto ad avanzare richiesta di REVOCA al Tribunale, chiedendo la sospensione immediata del TSO e delegando, se vogliamo, qualcuno a rappresentarci in giudizio.

4. abbiamo diritto a scegliere, ove possibile, il reparto presso cui essere ricoverati.

5. abbiamo diritto a conoscere tutte le certificazioni relative al nostro stato di salute, ad essere informati sulle terapie che ci vengono somministrate, sulla loro natura ed effetti, a poter scegliere fra una serie di alternative.

6. abbiamo diritto a comunicare  con chi vogliamo.

7. abbiamo diritto ad essere rispettati nella nostra dignità psichica e fisica. La nostra privacy deve essere rispettata e non possiamo essere offesi né verbalmente né fisicamente. Anche se sottoposti a TSO, nessuna contenzione fisica può esserci applicata, se non in via eccezionale e per il tempo strettamente necessario alla somministrazione della terapia. Gli atti di contenzione di natura punitiva sono reati penalmente perseguibili.

8. abbiamo diritto a dettare nella nostra cartella clinica ogni informazione riguardante il nostro stato di salute e i trattamenti che riceviamo.

9. abbiamo diritto a conoscere i nomi e la qualifica degli operatori del reparto (essi devono indossare cartellini di riconoscimento).

10. abbiamo diritto di disporre liberamente di ciò che ci appartiene e di esprimere liberamente le nostre opinioni.

Come invalidare un TSO?
Avere chiari (quali siano) i passaggi formali che portano al ricovero coatto e quali siano i diritti di cui godiamo è l'unico strumento per tentare di opporsi per via legale al TSO, e magari per cercare di ridurre i danni che ci possono arrecare durante il ricovero. Non che appellarsi ai propri diritti porti a dei risultati immediati - anzi non lo fa quasi mai - , ma se non altro mostra a medici e infermieri che si è informati su quello che possono fare o meno, e quindi riduce, almeno teoricamente, il potere che essi esercitano su di noi. Una volta che un provvedimento di TSO, legale o illegale che sia, ci è stato notificato, non abbiamo molta scelta oltre che rimanere in ospedale. Nelle 48 ore seguenti il giudice tutelare, nella sua funzione di garante, dovrebbe prendere in considerazione il nostro caso per decidere se convalidare il Trattamento. In mancanza di questa convalida entro due giorni, il provvedimento di TSO decade. Il Giudice Tutelare può anche scegliere di non convalidare il provvedimento, rendendolo così nullo. E' chiaro come sia molto difficile che un giudice tutelare, o il sindaco, si oppongano ad una richiesta varata e motivata da due medici, di cui uno specialista, in quanto non hanno competenze in merito alla necessità medica del provvedimento. E' previsto che chiunque ne abbia interesse possa fare RICORSO avverso al provvedimento di TSO al sindaco, che è tenuto a rispondere al ricorso entro 10 giorni, disponendo la revoca del provvedimento oppure rigettando il ricorso. Questa possibilità di autotutela, in realtà, ci è generalmente preclusa, innanzitutto perché i tempi di risposta superano quelli previsti dal ricovero (anche se il presidente di tribunale può sospendere il trattamento anche prima dell'udienza di comparizione) e poi perché è illusorio pensare che una persona, soggetta al regime del TSO, ricoverata in un reparto, sottoposta a terapia psicofarmacologica massiva, abbia la libertà di articolare un ricorso o le si lasci la possibilità di farlo pervenire alle autorità competenti.
Per questo motivo è necessario l'appoggio esterno di amici, familiari, collettivi e associazioni di tutela, etc. che possano richiederlo, superando le difficoltà di accesso agli atti che hanno determinato il TSO (è previsto che l'internato possa delegare ad altri l'accesso alla propria cartella clinica e alle informazioni che lo riguardano). Possiamo tentare di invalidare un TSO cercando di individuarne irregolarità nella forma e nel contenuto. Per quanto riguarda il contenuto (quanto viene dichiarato dai medici che propongono il TSO, dal Sindaco che lo emette e dal Giudice Tutelare che lo convalida) dovremmo dimostrare che non eravamo in una situazione di alterazione mentale tale da essere necessario ricoverarci, oppure che non rifiutavamo le cure o, infine, che qualunque fosse il problema, lo si poteva risolvere diversamente. La nostra parola contro quella degli psichiatri. A meno che uno psichiatra non dichiari che i suoi colleghi abbiano sbagliato a valutare la situazione o, peggio ancora, abbiano dichiarato il falso. Inutile a dirsi, nessuno lo farebbe!
Sicuramente più verosimile è riuscire a dimostrare che non siano stati rispettati tutti i passaggi formali previsti dalla legge. L'irregolarità più comune è quella di medici che certificano la necessità di TSO senza averci visto né visitato. Le irregolarità formali riguardano anche il rispetto dei tempi previsti dalla legge e soprattutto l'obbligo imposto ai medici, al sindaco e al giudice tutelare di motivare il ricovero. Quasi tutti i provvedimenti presentano infatti difetti di forma: è uso comune usare moduli prestampati; spesso come motivazione della richiesta di ricovero è indicata una semplice diagnosi; nelle certificazioni spesso manca la dichiarazione circa la presenza delle tre circostanze che giustificano il TSO. Per ridurre i tempi, conviene inviare copia del ricorso anche al giudice tutelare, specie se il ricorso parte entro le prime 48 ore dal ricovero (cioè quando presumibilmente lo stesso non ha ancora convalidato il provvedimento), chiedendo appunto di non convalidare il TSO e di disporne la decadenza immediata. Ciò senza aspettare la risposta del sindaco che potrebbe arrivare a ricovero concluso. Una volta che il TSO è stato eseguito e convalidato dal Giudice Tutelare, e il Sindaco ha rigettato il nostro ricorso, possiamo avanzare richiesta di REVOCA al Tribunale. In questo caso va richiesta la revoca immediata del TSO e si può scegliere di delegare qualcuno a rappresentarci in giudizio quando la nostra richiesta sarà discussa in Tribunale. 
Tutte le possibilità di autotutela che la legge prevede, si scontrano con la realtà, e cioè che ai ricoverati psichiatrici (non importa se volontari o coatti) non viene generalmente fornita alcuna informazione sui loro diritti, così come sugli atti che li riguardano. La loro libertà di movimento, così come la possibilità di comunicare, sono ridotte al minimo. Anzi la costrizione e il sotterfugio sono considerate strategie terapeutiche. Non è raro sentire uno psichiatra consigliare a familiari e parenti di versare di nascosto tranquillanti nel latte, o contrabbandare una fiala di Serenase per un disintossicante, inganni e trucchi che giustamente provocano una reazione violenta qualora vengano scoperti, e un motivato rifiuto di qualsiasi intervento sanitario (anche quando questo non ha a che fare con le cure psichiatriche). 
In questo come in altri casi, è l'intervento psichiatrico a provocare i comportamenti che dice di voler controllare. L'opinione circa la necessità e l'opportunità di tener nascosto ai ricoverati psichiatrici ciò che viene loro fatto, è diffusa e condivisa anche al di fuori del mondo psichiatrico. Tanto che, pur esistendo una normativa chiara in materia, esiste una impunità di fatto per le violazioni e gli abusi commessi dagli psichiatri ai danni dei loro utenti volontari e involontari. Bisogna sempre avere chiaro che il potere della psichiatria non sta tanto (o solo) nelle leggi, ma soprattutto nel consenso implicito o esplicito che noi diamo alle sue pratiche. C'è un legame inquietante fra la nostra paura della follia e ciò che abbiamo permesso di fare agli psichiatri, fra i nostri pregiudizi e l'impunità di cui essi godono. Dal primo momento di ricovero noi dobbiamo chiedere di essere informati su tempi, modalità, tipologie delle terapie che ci verranno somministrate. Il fatto di essere sottoposti ad un trattamento sanitario obbligatorio non inficia il nostro diritto a conoscere il tipo di intervento a cui siamo sottoposti e il fine che intende raggiungere.
Non solo. Se non abbiamo la possibilità di rifiutare le terapie, ci rimane il diritto di poter scegliere fra un ventaglio di proposte terapeutiche differenziate, ma anche questo è un diritto che abbiamo solo sulla carta. A tal fine una dichiarazione di accettazione della terapia e di indicazione del tipo di cura che si ritiene necessaria, può far venire meno uno dei presupposti che motivano il TSO e permette di opporsi all'imposizione di terapie che riteniamo troppo invasive (come per esempio quelle psicofarmacologiche). La dichiarazione, possibilmente scritta, da consegnare al Primario del reparto e far pervenire al Giudice Tutelare, deve contenere il nostro impegno ad accettare le terapie, l'indicazione di quali terapie riteniamo più idonee e quali dannose alla nostra integrità psicofisica, la DIFFIDA ai sanitari di praticare contro la nostra volontà questi interventi, specificando che li riterremo responsabili di qualsiasi danno esse possano arrecarci.
Se non abbiamo avuto modo prima, dobbiamo subito chiedere di conoscere gli estremi del provvedimento di TSO che ci riguarda (motivazioni, certificazioni mediche, provvedimento del Sindaco, convalida del Giudice Tutelare…) e, ove si ravvisi un abuso, chiedere di poter comunicare con il Giudice Tutelare competente per territorio (quello operante nel Comune il cui sindaco ha disposto il TSO). E' importante aver chiaro che non possono rifiutarsi di metterci in contatto con il Giudice Tutelare, così come non possono impedirci di comunicare con chi riteniamo opportuno. Spesso accade che gli operatori del reparto decidano, per esigenze terapeutiche, di impedire l'accesso al reparto a persone che vogliamo vedere, consentendolo ad altre che non gradiamo.
Questo perché, durante il ricovero, esiste una determinazione costante a piegare la nostra volontà e renderci disponibili alle cure. Non si capisce tra l'altro come un'esigenza terapeutica debba precluderci di vedere e comunicare - su nostra richiesta - con parenti e amici che ci conoscono più dei medici, che riconoscono le nostre ragioni, e che per questo possono esserci di sostegno e di aiuto. La comunicazione, oltre ad essere un diritto, è anche una forma di autotutela per difenderci da eventuali abusi connessi al ricovero coatto. Il problema, qui come altrove, è stabilire che margini concreti abbiamo di gestire tale diritto. In alcuni reparti esistono telefoni pubblici, ma nella maggior parte dei casi, la possibilità di comunicare con l'esterno passa attraverso gli operatori. Questi esercitano, com'è prevedibile, a piene mani sia il controllo che il diritto di veto su quello che possiamo dire e a chi. Dobbiamo aver chiaro che non è loro consentito limitare la nostra libertà di espressione e di comunicazione.
Ogni limitazione è un abuso che va comunicato, in qualche modo, al Giudice Tutelare che vigila sul nostro ricovero coatto, o direttamente, o attivando amici, familiari, collettivi e associazioni. Il consiglio che diamo a chiunque abbia subito (o rischia di subire) ricoveri coatti, è di tessere una rete di protezione preventiva per poter far fronte a possibili futuri abusi. Un'azione preventiva, proposta dallo psichiatra Thomas Szasz, è quella della stipula di una sorta di testamento psichiatrico. Szasz suggerisce di sottoscrivere, e depositare presso un legale, una dichiarazione in cui si afferma di essere contrari al proprio ricovero coatto e, in ogni caso, si chiariscono le proprie volontà rispetto a ciò che vogliamo ci venga fatto o risparmiato durante il ricovero.
Qualcosa di simile è la PROCURA elaborata dal Telefono Viola: dopo l'enunciazione del proprio rifiuto motivato ad acconsentire alle cure psichiatriche non richieste, la persona delega i legali dell'associazione e i suoi soci a rappresentarlo e tutelarlo di fronte alle autorità psichiatriche. Questo atto legale non impedisce di per sé il nostro ricovero coatto in psichiatria, però permette di attivare forme di tutela effettiva al momento del ricovero. E' un atto preventivo utile anche in considerazione del fatto che le nostre possibilità di scelta saranno forzatamente limitate (o annullate) dopo il ricovero. Sottoscrivere un atto in cui preventivamente si afferma che, nell'eventualità di TSO, autorizziamo un'associazione o una persona a prendere visione della documentazione che ci riguarda, permette, ad esempio, di poter praticare nella concretezza le possibilità di tutela previste dalla legge.
Mentre siamo ricoverati può capitare che, ad ogni nostro accenno di ribellione o di rifiuto, ci si risponda con violenza verbale o fisica, magari legandoci al letto per punizione. Tale pratica, ancora molto diffusa seppure sia stata sostituita dall'uso massiccio degli psicofarmaci, è un residuo delle pratiche manicomiali. Pratica mai dichiarata fuori legge, come del resto nessuna legge ha mai dichiarato illegali la lobotomia o il coma insulinico o l'elettroshock.
Ciò che in qualsiasi altro contesto non sarebbe tollerato e sarebbe definito maltrattamento o violenza, viene trasformato, durante un ricovero psichiatrico, in un intervento terapeutico. I mezzi di contenzione, così come vengono chiamati i metodi più o meno rudi di immobilizzare un essere umano, non sono stati infatti mai aboliti dalla legge. Gli psichiatri possono legalmente disporre, in situazioni in cui ravvisano gli estremi di uno stato di necessità (con pericolo grave per l'incolumità della persona loro affidata), che essa venga contenuta, anche se tale azione va motivata e limitata nel tempo. Qualsiasi sia la motivazione addotta, non è plausibile che si rimanga legati per ore o giorni ad un letto. In questi casi va avanzata denuncia per maltrattamenti e violenze. A volte la contenzione viene giustificata con la necessità di consentire agli infermieri di praticare una terapia iniettiva (flebo) che, a causa del rifiuto della persona, sarebbe impossibile realizzare. Anche in questo caso, e posto che durante il TSO esiste la possibilità di obbligarci a cure che non accettiamo, la contenzione può essere denunciata come reato se si protrae oltre il tempo strettamente necessario alla somministrazione della terapia. Tutti coloro che hanno provato sulla loro pelle la contenzione sono concordi nell'affermare il suo carattere prettamente punitivo, aldilà delle buone intenzioni addotte dal personale psichiatrico. Essa in molti casi non viene utilizzata, perché basta la minaccia dei lacci a far insorgere la paura di essere contenuti fisicamente. A volte ci si trova legati per evitare il pericolo di cadere e farci male per la confusione e la mancanza d'equilibrio causata dagli psicofarmaci. Paradossalmente subiamo un'ulteriore violenza per difenderci dagli effetti negativi di una terapia che rifiutiamo. 
Il più delle volte si viene contenuti per impedirci di dare fastidio o di scappare, per difendersi e punirci per la nostra resistenza attiva, per piegare la nostra volontà... In ognuno di questi casi l'uso della contenzione è illegale e va denunciato. Ricordiamoci però che ciò che è ovvio nel mondo degli esseri umani, non sempre lo è in quello della psichiatria. Dimostrare che ci sia stata violenza nel modo in cui ci hanno trattato in un reparto psichiatrico è cosa molto ardua. Innanzitutto perché chi è considerato un "malato di mente" smette di essere creduto come persona. Poi perché è diffusa la convinzione che dai "matti" occorra difenderci e renderli innocui perché pericolosi. E' possibile allora che qualcuno venga picchiato o di lui si abusi sessualmente, senza che questi abbia la possibilità di denunciare i fatti (e far punire i colpevoli). Chi è disposto a credere ad un pazzo? La sua parola contro quella di onesti cittadini, "sani di mente", che tentano di guarirlo. La storia ha dimostrato da che parte sta la follia e la violenza, ma nonostante questo gli internati psichiatrici continuano ad aver meno credito di chi ha praticato per decenni la costrizione, la distruzione sistematica dei corpi, dei cervelli e delle menti di persone loro affidate.

Due consigli pratici per potere impostare un'azione legale contro gli abusi di contenzione fisica subiti in un reparto:

1. presentare al primario del reparto una memoria scritta in cui si denunciano gli abusi subiti, chiedendo che venga inserita in cartella clinica. La legge regionale siciliana sulla tutela dei pazienti dei servizi sanitari prevede, in tal senso, che un cittadino possa dettare note circa il suo stato di salute e quant'altro ritenga necessario da trascrivere nella propria cartella clinica. Questa possibilità va usata anche per dichiarare le proprie allergie agli psicofarmaci, la mancanza di informazioni sulle terapie somministrate, nonché tutto ciò che si ritiene lesivo della propria salute psichica e fisica; 

2. annotare i nomi degli operatori responsabili degli abusi che si intende denunciare e le generalità dei ricoverati presenti in reparto. Se è facile invalidare la parola di un "matto", diventa difficile invalidare la testimonianza di più "matti". E' esperienza comune a quanti abbiano richiesto la cartella clinica del proprio ricovero psichiatrico, trovarvi inesattezze e omissioni anche consistenti: le pratiche di contenzione subite spesso scompaiono; non c'è traccia di tutte le nostre richieste e denunce; quando si accenna al nostro rifiuto delle cure e alle nostre richieste di dimissione, queste vengono inserite come sintomi della nostra situazione patologica; molte delle affermazioni degli psichiatri si basano su quanto riferito dai nostri familiari, mentre la nostra credibilità viene sempre messa in dubbio, contribuendo a togliere peso a quanto possiamo denunciare in seguito. La cartella clinica è l'unico documento ufficiale del nostro ricovero. E' importante che in essa compaia il nostro punto di vista, se vogliamo che le nostre denunce vengano prese in considerazione. Una copia di quanto si consegna al primario va conservata. E' importante fare arrivare copia di quanto consegnato al Giudice Tutelare. Ciò è più facile se ci si è preventivamente tutelati appoggiandosi a gruppi, collettivi e associazioni per i diritti umani. In ogni caso si può delegare un amico o anche un compagno di prigionia, liberato prima di noi, a far pervenire al Giudice Tutelare la nostra memoria. In ogni caso ricordiamo che abbiamo diritto di comunicare con lui in qualsiasi momento.
Il TSO, come abbiamo detto, ha la durata di sette giorni. Scaduto questo periodo esistono tre possibilità: o si viene dimessi, o si rimane ricoverati ma in regime di ricovero volontario, oppure il TSO viene prorogato. In tutti e tre i casi, la decisione va comunicata al Sindaco che ha disposto il TSO. Abbiamo diritto di sapere se il TSO è stato prorogato e di avere notificato il provvedimento di proroga del Sindaco. Fra i poteri del responsabile del reparto c'è anche quello di revocare anticipatamente il TSO. La proroga avviene con le stesse procedure che abbiamo descritto per il TSO. Il Sindaco firma il provvedimento sulla base delle certificazioni mediche fornite dai sanitari dell'ospedale e invia il tutto al Giudice Tutelare per la convalida. Anche se non si è fatta alcuna azione di ricorso al TSO, si può avanzare richiesta di revoca all'eventuale proroga (o proroghe) a cui siamo sottoposti. Revoca e ricorsi al Sindaco e al Tribunale, vanno fatti secondo le modalità di cui abbiamo parlato per quanto riguarda il TSO. 

Dopo il TSO-TSV? 
Uscire dal repartino purtroppo non vuol dire essere liberi, poiché la psichiatria continuerà ad esercitare il suo controllo su di noi, sulla nostra vita e sulle nostre relazioni. In alcuni casi lo psichiatra attiva un "percorso terapeutico e di cura", concordato con familiari e paziente (molto spesso estorto con le minacce) all'interno di strutture di degenza, ossia cliniche o comunità private accreditate e convenzionate, definite "residenziali" o "semiresidenziali". In questi luoghi il paziente continua la sua detenzione anche per periodi molto lunghi, poiché la legge non prevede in questo caso alcuna limitazione: luoghi alternativi alla vita reale in cui rimanere tagliati fuori, sospesi, in attesa di un fantomatico reinserimento. All'interno di queste strutture, che possono avere anche reparti geriatrici e per la cura delle tossicodipendenze, il paziente spesso è privato - sempre per fini "terapeutici" dettati dal medico - di diritti fondamentali quale il poter vedere e sentire chi vuole, il poter usufruire dei propri beni, il poter mandare avanti attività quali studio, lavoro, sport. Molto spesso queste strutture sono curate nell'estetica e nei servizi che forniscono, ma una prigione bella rimane sempre una prigione. Nella maggior parte dei casi però, una volta usciti dal reparto, si protrae anche fuori da esso una coatta presa in carico del "malato" da parte dei Servizi di Salute Mentale del territorio, che può durare anche decenni, e anche tutta una vita. Questo non accade sempre, può anche succedere che i servizi psichiatrici scelgano o non abbiano le risorse per continuare a seguirci in modo insistente, molto dipende dalla storia e dalla diagnosi del malato e da come si è comportato durante il trattamento. Quello che sicuramente si può dire è che il movente più forte del ritorno spontaneo del paziente dallo psichiatra è il bisogno delle ricette per gli psicofarmaci da cui è dipendente. Oltre all'infamia dello stigma di "malato mentale", che è sinonimo e condanna di esclusione sociale e di marginalità, il paziente rimane invischiato in un regime di medicalizzazione forzata, fatto di continue e cadenzate visite dallo psichiatra e di trattamenti farmacologici devastanti ed invalidanti. 
A queste cure non ci si può sottrarre, poiché ci si espone al rischio di un altro TSO: se non ti presenti alle visite con lo psichiatra, ecco pronto un ASO e poi il TSO; se ti rifiuti di prendere i farmaci, o semplicemente chiedi di scalarli, ecco che ti fanno il depot, cioè un'iniezione a lento rilascio, fatte ogni 15, 21 o 28 giorni, in modo da eliminare la terapia orale e quindi il rischio della sua interruzione o auotoscalaggio; e comunque se rifiuti le cure, il rischio di TSO è sempre lì, è una continua minaccia. Sono davvero pochi i medici che, su richiesta ben motivata del paziente, si rendano disponibili a fornire informazioni e soprattutto a scalare i farmaci, nonostante i bugiardini siano ben chiari sul fatto che gli stessi vadano assunti per un periodo limitato di tempo. Forse anche per questo motivo di solito i pazienti hanno in mano le scatole dei costosi farmaci prive delle istruzioni per l'uso! Con la scusa del bisogno e la pretesa curativa, i trattamenti psichiatrici sono infatti prolungati, infiniti. Le "terapie di mantenimento" durano tutta la vita perché si peggiora a causa del trattamento stesso, e nel tempo divengono sempre più complesse, con farmaci combinati per sopperire agli effetti collaterali gli uni degli altri. 
Proprio per via di questi farmaci, riprendere la propria vita è molto difficile, poiché questi inducono cambiamenti deleteri nelle persone, coinvolgendo sia il corpo che la psiche: devastano il fisico; alterano le capacità cognitive, intellettuali, emozionali e di ragionamento astratto; ostacolano e precludono la possibilità di una vita dignitosa e autonoma; le spingono a considerarsi sempre più malate e inguaribili, isolandole socialmente e ostacolando di fatto la soluzione del malessere e del conflitto scatenante. L'assunzione di psicofarmaci rende difficile lo svolgimento di un lavoro o di qualsiasi attività di autosostentamento, motivo per cui il più delle volte la "presa in carico" prevede anche l'attivazione di un iter burocratico diretto al riconoscimento di un'invalidità civile e al conseguente diritto ad una misera pensione, di cui spesso non possono liberamente usufruire in quanto gestita da amministratori di sostegno. Spesso le persone vengono introdotte in "progetti di inserimento" per malati psichici, portati avanti per lo più da associazioni e finanziati dai CSM stessi: questi prevedono attività di gruppo varie (letterarie, artistiche, gruppi di auto-mutuo-aiuto, etc.), ma anche inserimento abitativo (case famiglia) e lavorativo (con stipendi da tre euro l'ora). Anche dietro lo svolgimento di queste attività c'è spesso il ricatto del medico. E ugualmente tali contesti non sono favorevoli alla dismissione dei farmaci. E' paradossale che gli l'artefici della disperazione e della solitudine di queste persone, chi le ha drogate, assuefatte, danneggiate con l'elettroshock e private dell'autonomia, siano anche i promotori di attività lavorative e ludiche per reinserirlo nella società! Sempre se di "reinserimento" possiamo parlare, visto che il più delle volte si tratta solo di "posteggi" per persone che ormai hanno perso tutto, di progetti con cui farsi bella pubblicità, per distogliere lo sguardo dai reparti con le sbarre alle finestre, dai lacci di contenzione, dai corridoi di servizi pubblici dove le persone si trascinano, ombre di se stesse.
La psichiatria e la sua istituzionalizzazione nel SSN [Servizio Sanitario Nazionale], tende dunque a cronicizzare quella che chiamano "malattia" con i farmaci e con il suo paternalismo e la logica dell'incapace. Il "malato" viene deresponsabilizzato e infantilizzato, rendendolo non più autosufficiente, strappandogli vita, affetti e abitudini, oltre che attentando gravemente alla sua salute. Oggi, a quasi quarant'anni dalla legge 180, i manicomi in Italia sono stati chiusi, ma non sono stati eliminati: i grandi manicomi hanno ceduto il posto a tantissime piccole strutture per le cure psichiatriche di diversa entità e capillarmente diffuse nel territorio, all'interno delle quali le persone continuano ad essere rinchiuse in maniera coatta e prolungata a causa dei loro comportamenti e delle loro sofferenze. Con la moderna psicofarmacologia e il business delle multinazionali del farmaco, oggi tra l'altro c'è sempre meno bisogno di sbarre e di letti di contenzione, in quanto sono i farmaci stessi ad avere questa funzione, di gabbia chimica, di nuovi manicomi, e i "malati" vivono la stessa situazione, anche se all'interno delle mura della propria casa.

Qualche consiglio
Innanzitutto consigliamo a chi non ha mai avuto rapporti con la psichiatria e si trova in un periodo critico dell'esistenza, di evitare di rivolgersi ai servizi di salute mentale o a uno psichiatra, e di non iniziare ad assumere psicofarmaci. Il lavoro sulla sofferenza più che di pillole richiede un lavoro interiore e la vicinanza di persone care. Se si ha bisogno di un aiuto farmacologico, questo deve supportare e non sostituire altri percorsi, deve essere accompagnato da corrette informazioni sulle sostanze e deve essere limitato nel breve periodo.

- Visita e terapia
Presentarsi sempre alle consuete visite col medico, a meno che non si abbiano motivi importanti (in questo caso avvisare tempestivamente); in caso contrario rischiamo un ASO (e un TSO in seguito). Durante la visite, alle quali potete eventualmente anche farvi accompagnare da chi volete, evitate di fare confidenze e di parlare di convinzioni personali su se stessi e sul mondo, e cercate di apparire piuttosto accondiscendenti, volenterosi e motivati nel percorso di guarigione intrapreso. Può sicuramente essere utile informarsi sulla diagnosi che ci è stata affibbiata (dal DSM, o da alcuni manuali scientifici), per conoscerne sintomi e indicatori di guarigione, in modo da preparare la propria "maschera" e simulare la propria progressiva guarigione. Fortunatamente i colloqui sono di solito molto brevi (non durano più di 20 minuti) e sono molto formali e standardizzati. Prima di andare, cercate quindi di rilassarvi, di fare qualcosa che vi fa star bene, o che vi faccia sfogare se occorre. Per quanto riguarda la terapia, si può provare, motivando, a chiedere lo scalaggio, senza insistere troppo (il rifiuto della terapia è uno delle motivazioni per un eventuale TSO). Lo stesso vale per i cambi di farmacoterapia, e anch'essi vanno sostituiti in modo molto graduale. Chiedere comunque sempre la prescrizione di farmaci per via orale e, laddove possibile, in gocce, in quanto più facili da scalare una volta arrivati a bassi dosaggi. All'infuori del reparto, abbiamo la possibilità di reperire (internet, amici, etc.) informazioni sui farmaci e sui loro effetti collaterali: documentiamoci, anche tramite fonti diversificate.

- Scalaggio
 Se si decide di interrompere l'assunzione servono informazioni ben dettagliate sui farmaci, tanta consapevolezza, grande volontà e, possibilmente, l'aiuto e il sostegno di qualcuno. Avere una rete di supporto affidabile,  fatta di amici e/o familiari informati della situazione e che non vi boicottano, può essere infatti molto vantaggioso. Se si è soli è molto più difficile, ma non è impossibile: la solitudine è quasi sempre ciò che porta a star male, è l'anticamera della psichiatrizzazione. Con la dismissione del farmaco si esasperano le sofferenze che hanno indotto ad iniziare il trattamento, poiché, togliendo le droghe, le emozioni e gli stati d'animo sono nuovamente liberi di riaffiorare. Per questo motivo è necessario affrontare la paura, la tristezza, la rabbia: piangere, ridere, dare sfogo alla rabbia senza moralismi e rispettando gli altri, sono esperienze positive e importanti di cui non bisogna privarsi. E' possibile farsi aiutare da un medico generico fidato se lo si trova, ma non è indispensabile; eventualmente si possono fare esami tossicologici sulle molecole assunte prima di iniziare. Non è conveniente scalare se sottoposti a depot, in quanto crea squilibri e scompensi nella quantità di principio attivo presente nell'organismo. Per la dismissione non esiste un metodo giusto o sbagliato, bisogna informarsi sulle sostanze e sulle esperienze di altri che lo hanno già fatto, bisogna ascoltare il proprio corpo. Esistono diverse esperienze e teorie (in letteratura, ad esempio, quelle di P. Lehmann, sopravvissuto alla psichiatria e del neurologo P. Breggin), per cui l'importante è seguire un metodo che tenga conto di come ci si sente e poi mantenere un programma di dismissione osservandosi attentamente.
Qualsiasi sia il metodo scelto è consigliabile non alzare il dosaggio se si è abbassato, e tenerlo stabile per il tempo necessario al corpo di abituarsi. 
- intrattenere relazioni paritarie e orizzontali, avere interessi, frequentare gruppi di mutuo-autoaiuto autogestiti e fuori dalle istituzioni,
- leggere e scrivere.
- fare movimento e sport, lunghe passeggiate o anche saune, al fine
di eliminare il più possibile le tossine.
- cercare un medico psichiatra disponibile
con cui andare in cura e con cui iniziare un eventuale scalaggio dei farmaci. Questo ci aiuterà a staccarci via via dai servizi territoriali e dal loro controllo.
Attenzione comunque a non saltare le visite (né col privato, né eventuali visite col pubblico), poiché, in caso di provvedimento di TSO è difficile che un medico si metta contro un altro - per di più del servizio pubblico - ostacolando una sua scelta!
Infine, ricordatevi, poiché non esiste "malattia", non esiste "guarigione"! La vita è un insieme di gioia e dolore e nessuna di queste esperienze esistenziali, che siano esse positive, negative, "anormali", va guarita con farmaci e con la medicina.

***

Qualche modulo utile:

Al RESPONSABILE………………….……….
Servizio Psichiatrico Diagnosi e Cura
Ospedale……………………………………….
Azienda ASL n°……
e p.c. GIUDICE TUTELARE
di……………………..
Il/la sottoscritto/a……………………………………………………
nato/a ……………………………………………
il ……………………………………………
residente in…………………………via…………………………
in atto ricoverato/a presso il reparto psichiatrico dell’ospedale
di…………………………………………………
Azienda ASL n°……. dal……………………,
in ricovero…………………………..

Dichiara

- di rifiutare le cure psicofarmacologiche a lui somministrate in quanto lesive della sua integrità psicofisica
- di accettare solo i trattamenti psicoterapici e socioriabilitativi in quanto rispondenti ai propri bisogni
Diffida I medici e il personale del reparto dal somministrargli farmaci contro la sua volontà, ritenendoli responsabili di tutte le eventuali conseguenze.

lì,………………………………….
FIRMA……………………


***


Al TRIBUNALE di………………………….
OGGETTO: L.23/12/78 n. 833 art. 35 comma 8.
Ricorso avverso Trattamento Sanitario Obbligatorio(T.S.O.)
Il/la sottoscritto/a…………………………………............
nato/a a…………………………….il………………
residente a…………………………in via………………………….
ricoverato presso il reparto psichiatrico dell’Ospedale…………...
Azienda ASL n°………………….., dal……………………….
in Trattamento Sanitario Obbligatorio, 
v i s t o l’art. 35 comma 8 della L. 23/12/78 n. 833
r i c o r r e contro il provvedimento di T.S.O in regime di ricovero ospedaliero disposto nei suoi confronti dal Sindaco del Comune di………………….....

in  quanto
……………………………………………………………………………………………..
……………………………………………………………………………………………..
lì,………………………………….

FIRMA…………………………………

***

Al SINDACO del Comune di………………………………
e p.c. GIUDICE TUTELARE di……………………………………

OGGETTO: L.23/12/78 n. 833 art. 33 comma 7.
Richiesta di revoca del Trattamento Sanitario Obbligatorio(T.S.O.)
Il/la sottoscritt…………………………………............
nato/a a…………………………..................il…………………………
residente in……………………………via………………………,
ricoverato presso il reparto psichiatrico dell’Ospedale……………
Azienda ASL n°………, dal…………………in Trattamento Sanitario Obbligatorio

v i s t o
l’art. 35 comma 8 della L. 23/12/78 n. 833
c h i e d e
la revoca immediata del provvedimento di T.S.O. disposto o prolungato nei suoi confronti 

in quanto
………………………………………………………………………………………..
………………………………………………………………………………………..
lì,………………………………….
FIRMA…………………………..


***

Cosa fa il collettivo antipsichiatrico Francesco Mastrogiovanni?

- informare coloro che hanno a che fare con l'inferno psichiatrico;

- raccogliere denunce di abusi relativi a Trattamenti Sanitari Obbligatori e somministrazione massiccia di psicofarmaci;

- informazioni su contenzione fisica e farmacologica;

- aprire uno spazio al dibattito su usi e abusi della psichiatria;

- aiuto legale;

- telefonico antipsichiatrico per chi si trova impigliato nelle maglie della psichiatria e vuole liberarsene, o rischia di finirci e vuole evitarlo.

Parimenti è rivolto a chi ha un familiare o con un amico rinchiuso in psichiatria e vorrebbe capire cosa gli stanno facendo e come poterlo aiutare.

Il telefono funziona con la segreteria telefonica tutti i giorni.
Una volta alla settimana - dalle 19 alle 21 del martedì - rispondiamo direttamente. Il numero è 345 61 94 300 il telefono è autogestito e autofinanziato.

Chiunque sia interessato al progetto è il benvenuto!
Le riunioni del Collettivo antipsichiatrico Francesco Mastrogiovanni si tengono ogni martedì alle 21 in corso Palermo 46 contatti: antipsichiatriatorino@inventati.org

Il collettivo antipsichiatrico stampato in proprio in corso Palermo 46, Torino, il 21 ottobre 2014
Uomini e donne vengono presi con la forza, rinchiusi in un repartino psichiatrico, riempiti di psicofarmaci e spesso legati ai letti. Prigionieri senza possibilità di parola, perché la parola di chi finisce in repartino è parola alienata. In tutti i significati. Parola priva di senso, parola privata di senso perché chi parla non è ragionevole. Non è ragionevole, perché la ragione è fuori dal repartino, perché la ragione è solo del potere che imprigiona, lega con corde chimiche e di cotone.

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