lunedì 10 settembre 2018

Linda Steele: Sfidare il “Monopolio della Violenza” nella Giurisprudenza


Linda Steele: Sfidare il “Monopolio della Violenza” in Giurisprudenza

articolo originale: 

Sfidare il “Monopolio della Violenza” in Giurisprudenza: Diritti Umani e Violenza Lecita specifica nella Disabilità


La Dr.ssa Linda Steele, Docente, Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Wollongong, Australia, caratterizza il trattamento sanitario obbligatorio in psichiatria come forma di violenza specifica della disabilità condonate dalla legge nazionale e quindi non suscettibili di ricorso legale.

29 Marzo 2016

La Convenzione sui diritti delle persone con disabilità [i] (“la CRPD”) rappresenta un caposaldo dei diritti umani e asserisce che i trattamenti sanitari, la detenzione e la contenzione chimica e fisica non consensuali, devono essere considerate forme di violenza discriminatorie nei confronti delle persone con disabilità. Al fine di vietare esplicitamente queste pratiche e fornire vie legali per i risarcimenti, gli organismi dei diritti umani delle Nazioni Unite devono essere costanti e perseveranti nel sollecitare gli Stati Parte a riformare le leggi penali e civili. Fino a quando questo non avverrà, queste pratiche continueranno a rappresentare forme lecite di violenza, che saranno ammesse e anzi, consentite dallo Stato e dalla legge.

Nel mio post discuterò brevemente il concetto di “violenza lecita” e del perché il trattamento sanitario, la detenzione e la contenzione fisica e chimica non consensuali, costituiscano “violenza lecita, specifica della disabilità”. In seguito spiegherò come la CRPD rappresenti una caposaldo dei diritti umani per poter contestare la legittimità di questo tipo di violenza, e ciò che deve essere fatto per sollecitare gli Stati Parte ad attenersi alla CRPD e infine, vietare e porre rimedio alla violenza lecita nel caso specifico della disabilità.






Mettere in discussione lo Status di Legalità della Violenza



Le persone con disabilità, rispetto alle persone senza disabilità, sperimentano tassi di violenza sproporzionatamente alti, [ii] (anche tenendo conto dei problemi riguardanti la raccolta dati, che si traducono in una sotto-quantificazione dei tassi di violenza nei confronti delle persone con disabilità [iii]). Esistono numerosi approcci per categorizzare la violenza nei confronti delle persone con disabilità, ai fini dell’analisi e dell’elaborazione delle raccomandazioni per una riforma legislativa, diretti a ridurne l’incidenza e a migliorare la giustizia nei riguardi dei sopravvissuti. In questo post ho adottato il seguente criterio: classificare la violenza nei termini di status giuridico della legislazione nazionale, cioè, se la violenza è proibita e legalmente perseguibile, o se invece è consentita e tollerata dalla legge. Questo approccio è particolarmente fecondo per valutare il significato dell’interfaccia della CRPD e del diritto nazionale degli Stati Parte, e affrontare tutte le forme di violenza che subiscono le persone con disabilità.



• Violenza illecita


I contatti, la detenzione e la contenzione indesiderati, nei confronti delle persone con disabilità, costituiscono “violenza illegale”, cioè, violenza vietata dal diritto penale nazionale (come ad esempio i reati di aggressione o di violenza sessuale) e/o costituiscono illeciti ai sensi della legge civile (ad esempio illeciti colposi o reclusione illegale). Mentre le persone con disabilità che subiscono “violenza illegale” hanno tecnicamente a loro disposizione tutele e rimedi giuridici penali e civili, a livello individuale ci sono notevoli problemi per quanto riguarda l’applicazione concreta di queste leggi nei confronti dei sopravvissuti con disabilità. Questi problemi sono dovuti a fattori quali: le convinzioni discriminatorie della polizia, dei pubblici ministeri e dei giudici nei riguardi della disabilità (e dell’intersezione della disabilità con il genere, la sessualità, la razza, l’incriminazione e l’età) e anche a causa del regime probatorio e delle norme procedurali discriminatorie.

Nonostante i significativi problemi con “la violenza illegale” nei confronti di persone con disabilità, ci sono alcune forme di contatti, di detenzione e di contenzione indesiderati delle persone con disabilità, che non rientrano nella categoria di “violenza illegale”, di modo che non c’è nemmeno la possibilità di punizione e di risarcimento. Nel presente contesto, il trattamento medico, la detenzione e la contenzione non consensuali di persone con disabilità, non rientrano nella categoria di “violenza illegale”, come spiegherò di seguito.

• Violenza legale

A volte i contatti, le detenzioni e le contenzioni indesiderati, delle persone con disabilità – specie nel caso di trattamento sanitario, detenzione e contenzione fisica e chimica non consensuali, - non sono vietati o non è ammesso il ricorso ai sensi della legislazione nazionale, e anzi sono consentiti dalla legge. Queste pratiche, in quanto tali, non rientrano nella categoria di “violenza illegale” e si collocano in una categoria di “violenza lecita” diversa o, come l’ho definita, in ragione del significato di “disabilità” rispetto alla sua legalità, una categoria di “violenza lecita specifica nella disabilità”. [iv]

Violenza lecita specifica nella disabilità

Basandosi sul lavoro di Robert Cover [v] sulla “violenza lecita” (vale a dire la violenza consentita dalla legge), Austin Sarat e Thomas Kearns [vi] sostengono che la legge ha un “monopolio” sulla violenza, perché la legge determina ciò che è possibile fare a un altro corpo senza alcuna responsabilità legale. Il diritto nazionale, e particolarmente il diritto penale e le norme nazionali in materia di fatti illeciti, hanno il controllo esclusivo sulla violenza, perché a prescindere dalle singole esperienze o dai valori sociali, per quanto riguarda il contatto, la reclusione e la contenzione indesiderati (o addirittura anche dalle prospettive internazionali sui diritti umani, relative al contatto, alla detenzione e alla contenzione indesiderati), è l’ordinamento giuridico nazionale a determinare cosa deve essere punito o risarcito, e viceversa, cosa è permesso, e avrà come conseguenza nessuna punizione del colpevole o nessun risarcimento a favore del sopravvissuto. Il contatto, la detenzione e la contenzione indesiderati diventano violenza “lecita”, consentita dalla legge. Questo non implica che l’ammissibilità legale significhi che la violenza lecita sia completamente libera. In generale, la violenza lecita è profondamente radicata nei quadri legislativi e di diritto comune, e nelle procedure giudiziarie e amministrative (molti dei quali, si presume, “proteggano” coloro che sono soggetti a violenza lecita, attraverso una supervisione “procedurale”). Pertanto, lo Stato e la legge sono sostanzialmente complici del funzionamento e della legittimazione dei contatti, della detenzione e della contenzione indesiderati, dove consentiti dalla legge.


• Legalità

Passando quindi al trattamento medico non consensuale, alla detenzione e alla contenzione fisica e chimica delle persone con disabilità, queste pratiche costituiscono violenza lecita, nel senso discusso sopra, perché non sono proibite o perseguibili dalla legge. In termini molto generali, il diritto penale definisce aggressione e il diritto civile aggressione aggravata, il contatto fisico interpersonale non consensuale, o la minaccia di tale contatto non consensuale. L’illecito civile di reclusione indebita e dei reati connessi, considerano la detenzione e il sequestro illegali, dove vi sia la privazione non consensuale della libertà in uno spazio delimitato. A fronte del divieto di questi atti, quali reati e illeciti in generale, il punto di ingresso per la legalità di tali atti nei confronti di persone con disabilità, sono le eccezioni legali alla violenza illegale, create da alcuni meccanismi difensivi rispetto alla responsabilità penale e alla responsabilità derivante da illecito: consenso, necessità e autorità legittima. Questi vengono qui discussi in termini molto generali (da notare che ci sono differenze tra le giurisdizioni):

1. Consenso: Il contatto fisico interpersonale non costituisce violenza, se consentito da parte dell'individuo. Tuttavia, se l’individuo non ha la capacità di dare il consenso, la legge permette a un terzo di dare il consenso in nome della persona in questione. Nel contesto del trattamento medico (come la sterilizzazione) di persone con disabilità, sono state stabilite procedure legali per il riconoscimento del consenso di parti terze, ad esempio nel coinvolgimento della determinazione della mancanza di capacità giuridica, sulla base dell’incapacità mentale, e in seguito per determinare se la decisione medica sia nel “migliore interesse” o come “ultima istanza.” [vii]

2. Necessità: il trattamento sanitario, la detenzione e la contenzione fisica e chimica non consensuali delle persone con disabilità, potrebbero essere considerati come rientranti nel trattamento salvavita, se la procedura fosse considerata “necessaria” al fine di proteggere la vita, la salute o il benessere dell’individuo, e se l’atto è ragionevole e proporzionato al “danno” da affrontare (indipendentemente dal fatto che questo danno sia nel contesto di una situazione di emergenza immediata e a breve termine, o di uno stato di cose duraturo). .[viii]

3. Autorità legittima: il trattamento sanitario, la detenzione e la contenzione fisica e chimica non consensuali delle persone con disabilità, sono lecite quando eseguite a norma di legge o dall’autorità giudiziaria. [ix] Tale autorità comprende sia la legislazione civile e forense sulla salute mentale, che autorizzano la detenzione e il trattamento, sia la legislazione che autorizza la contenzione chimica e fisica.

Questi meccanismi difensivi si ritagliano una deroga alla “violenza illegale” per il trattamento sanitario, la detenzione e la contenzione fisica e chimica non consensuali delle persone con disabilità, in modo tale che diventino forme di “violenza legittima”, regolate dalla legge. Questa misura procedurale di tutela su base individuale, di quando e di come tali interventi hanno luogo, taglia fuori la messa in discussione, a livello sistemico, del perché queste pratiche indesiderate devono sempre essere consentite, ed evita categoricamente di denominare queste pratiche come violenza.

Eppure, la “regolamentazione” nei termini di legge di queste pratiche, è generalmente inquadrata come “protettiva”, perché il coinvolgimento della legge prevede la supervisione delle procedure amministrativa e giudiziaria, di quando e come si verificano questi interventi non consensuali. Di fatto, la maggiore “giustizia procedurale” concessa alle persone con disabilità negli ultimi due decenni, è spesso contraddistinta quale indicatore di un approccio legale e sociale alle persone con disabilità più illuminato e progressista, nella misura in cui viene giustapposto a pratiche precedenti, presumibilmente extra-legali, arbitrarie e repressive, nei confronti delle persone con disabilità. Lungi dal presentare il ruolo della giurisprudenza nella “salvezza” o nell’“emancipazione” delle persone con disabilità, ciò nonostante, i processi legali attraverso i quali il trattamento sanitario, la detenzione e la contenzione fisica e chimica non consensuali delle persone con disabilità sono permessi, segnalano di fatto la complicità della legge in questa violenza, cioè la regolamentazione statale della legalità della violenza contro le persone con disabilità. Lo Stato e la legge contribuiscono alla produzione di norme sociali ed etiche più generali, su ciò che è lecito fare alle persone con disabilità e infine, riduce il valore dei corpi e delle vite delle persone con disabilità.

Lo status di legittimità di certe violenze contro le persone con disabilità, ha implicazioni per la punizione dei colpevoli e il risarcimenti delle vittime - in breve, non ce ne sono. Ad esempio, nel caso un individuo sia detenuto in una struttura psichiatrica e sottoposto a un trattamento, ai sensi dell’ordine di un tribunale, eseguito in virtù della legislazione civile sulla salute mentale, questa persona non può segnalare l’accaduto alla polizia, perché il medico venga accusato di aggressione (anche se il medico agisce al di fuori di uno specifico ordine, e quindi illegalmente). Allo stesso modo, se una ragazza con disabilità intellettiva viene sottoposta a sterilizzazione secondo la norma, con il consenso dei suoi genitori, lei non può chiedere i danni civili per violenza, in quanto il medico ha agito in conformità alla decisione dei suoi genitori, ed è stato autorizzato dal tribunale nei migliori interessi della ragazza. Un ulteriore esempio è la detenzione nel sistema di salute mentale forense [psichiatrico giudiziario] sulla base dell’inabilità di un individuo non condannato: questo è lecito se si tratta di un’inabilità determinata ai sensi della procedura legale specificata dalla legislazione forense sulla salute mentale, e un individuo non può chiedere i danni per gli anni di reclusione.

Specificità della disabilità

Qui sopra ho spiegato come il trattamento sanitario, la detenzione e la contenzione fisica e chimica non consensuali delle persone con disabilità, diventano “violenza legale”. Mi riferisco a questo come violenza legittima “specifica nella disabilità”, perché la disabilità è centrale per la legittimità di questa violenza specifica (e a volte esclusiva) nei confronti delle persone con disabilità:

1. Questa violenza si verifica in circostanze istituzionali specifiche attraverso la marginalizzazione, segregazione e regolamentazione delle persone con disabilità, per esempio attraverso le strutture psichiatriche, il sistema psichiatrico giudiziario, la sterilizzazione.

2. Attraversando tutte le difese discusse qui sopra e i quadri legislativi ad esse associate, riguardanti la sostituzione nel processo decisionale (nel contesto della difesa del consenso) e che autorizza la legislazione (nel contesto della difesa della legittima autorità), circolano stereotipi sulla disabilità come dimostra l’interpretazione giudiziaria di tali concetti giuridici, carichi di concetti valoriali come “danno”, “necessità”, “ragionevole”, “miglior interesse”, in relazione alle persone con disabilità. [x]

3. I mezzi di difesa e i relativi quadri giuridici riguardanti la sostituzione nel processo decisionale e le disposizioni legislative, appaiono come socialmente ed eticamente accettabili a causa dell’idea che si ha delle persone con disabilità, come bisognose (e che beneficiano) di un trattamento sanitario, della detenzione e della contenzione. Significativo qui sono i discorsi sulla disabilità, legati alla medicina e ai difetti (logiche della terapia), sentirsi indifesi (logiche di cura e protezione) e in pericolo (logiche di gestione del rischio).

4. Tutte i mezzi di difesa e le normative associate, riguardanti la sostituzione nei processi decisionali e le disposizioni legislative, sono attraversati dal significato di “incapacità mentale”: sia come base per la rimozione della capacità giuridica (ad esempio nei mezzi di difesa del consenso e della necessità) e/o come base per indicare la mancanza di autocontrollo, il pericolo o la vulnerabilità (per esempio nelle difese di necessità e autorità legittima). Mentre l’“incapacità di intendere e volere”, è generalmente concepita come una caratteristica degli individui scientificamente obiettiva, si tratta invece di un concetto problematico che contiene norme di razionalità, autosufficienza e impermeabilità corporea, che si basano sulle caratteristiche di un soggetto abile. [xi]

Pertanto, categorizzare la violenza contro le persone con disabilità in termini di status giuridico chiarisce come in alcuni casi la violenza contro le persone con disabilità è legalmente consentita e autorizzata dallo stato. Dove la legge ha il monopolio della “violenza” contro le persone disabili, si può sostenere che è inutile affrontare i singoli casi riguardanti questa violenza, rivolgendosi alla legge. Un’azione penale o civile non potrà mai avere successo, anche avvalendosi dei migliori avvocati e giudici: non possiamo rivolgerci al diritto interno per la punizione o il risarcimento (né possiamo rivolgerci allo Stato perché condoni questa violenza), perché la legge dice che non si tratta di “violenze” in senso giuridico e come tali non sono soprusi o danni e non costituiscono ingiustizie.

La CRPD e la Violenza Lecita, specifiche in materia di disabilità

La CRPD prevede la possibilità di considerare come violenza il trattamento sanitario, la detenzione e la contenzione fisica e chimica non consensuali delle persone con disabilità, e fornisce la base dei diritti umani, perché gli Stati Parte vietino queste pratiche come violenza illegale. La CRPD impone esplicitamente degli obblighi agli Stati Parte, al fine di proteggere le persone con disabilità dalla violenza, anche attraverso l’adozione di misure giuridiche (presumibilmente per impedire la violenza e fornire soluzioni adeguate). L’articolo 16 della CRPD stabilisce che: “Gli Stati Parte prenderanno altresì tutte le misure legislative, amministrative, sociali, educative e altre misure appropriate, per proteggere le persone con disabilità, sia dentro casa che al di fuori di essa, per impedire ogni forma di sfruttamento, di violenza e di abuso, assicurando, tra l’altro, appropriate forme di assistenza e di sostegno adatte al genere ed all’età, a beneficio delle persone con disabilità”.


Tuttavia, l’obbligo di cui all’articolo 16, non è semplicemente quello di proteggere le persone da una violenza illegittima momentanea, per esempio, migliorando la tutela in relazione ai singoli casi. Piuttosto, quando l’articolo 16 viene letto in combinazione con altri articoli della CRPD, diventa evidente che ai sensi della CRPD, gli obblighi degli Stati Parte relativi alla violenza includono la protezione delle persone con disabilità da forme di violenza attualmente lecite, e quindi dalla “violenza legittima specifica della disabilità”:

1. Il diritto all’uguaglianza e alla non discriminazione, di cui all’articolo 5, e il diritto all’integrità personale, di cui all'articolo 17 della CRPD, significano che agli individui deve essere riconosciuta l’autodeterminazione e la capacità di prendere le proprie decisioni, per acconsentire o rifiutare il consenso a interventi nei confronti dei loro corpi e delle loro vite, nella stessa misura delle persone senza disabilità. Le persone con disabilità non possono essere costrette al contatto fisico, alla detenzione o alla contenzione non consensuali, sulla base della loro disabilità.

2. Il diritto all’uguaglianza e alla non discriminazione di cui all’articolo 5, unitamente al diritto alla capacità giuridica di cui all’articolo 12 della CRPD, significa che agli individui deve essere riconosciuta la loro capacità legale di prendere decisioni, nella stessa misura che agli individui senza disabilità, e non deve essere loro negata la capacità giuridica sulla base della “incapacità di intendere e volere”. Il diritto di esercitare l’autonomia, consentendo o rifiutando il consenso informato, dovrebbe essere a disposizione di tutti, indipendentemente dall’“incapacità mentale” percepita. A sua volta, il contatto fisico, la detenzione o la contenzione non consensuali, sono discriminatori perché si applicano solo agli individui con disabilità, in collegamento all’incapacità di intendere e volere (di per sé un concetto discriminatorio, come detto sopra). [xii] Su base analoga, la detenzione non consensuale, sulla base della disabilità, costituisce detenzione arbitraria, ai sensi dell’articolo 14. [xiii]

3. Il diritto alla libertà dalla tortura di cui all'articolo 15, significa che le normative procedurali giudiziaria e amministrativa, assertivamente protettive, concernenti il contatto, la detenzione o la contenzione non consensuali potrebbero, in maniera perversa, rendere questi interventi non solo violenza, ma anche violenza discriminatoria sanzionata dallo Stato e quindi tortura. [xiv]

4.- Nel preambolo della CRPD, l’evidente cambiamento del significato di disabilità da un modello medico, alla disabilità come concetto in evoluzione, e di disabilità come risultato dell’interazione tra persone con menomazioni e barriere attitudinali e ambientali che impediscono la loro piena ed effettiva partecipazione alla società, su base egualitaria con gli altri, illumina il significato della contingenza sociale e politica del significato di disabilità, per la realizzazione dei diritti umani delle persone con disabilità anche attraverso quadri giuridici nazionali. Pertanto, questo cambiamento suggerisce che attualmente, nelle normative, potrebbero circolare stereotipi sulla disabilità, che rendono legittimo il contatto, la detenzione o la contenzione non consensuali, di persone con disabilità.

La CRPD è abbastanza radicale per quanto riguarda il nuovo approccio alla violenza nei confronti di persone con disabilità, che essa fornisce. Questo succede perché questo tipo di approccio contesta i concetti fondamentali di consenso, di capacità, di Stato/autorità giudiziaria, i quali ordinano i sistemi normativi nazionali (e in una certa misura il diritto internazionale dei diritti umani). Questo approccio contesta anche le vecchie istituzioni (ma che sono in continua crescita), discipline e industrie di incarcerazione e la terapia, attraverso cui vengono amministrati il contatto fisico, la detenzione o la contenzione non consensuali.

Cos’è necessario fare?

Nonostante queste idee piuttosto rivoluzionarie sulla disabilità e la violenza fornite dalla CRPD, la violenza lecita, specifica della disabilità, continua. Mentre la CRPD ha spinto alcuni Stati Parti a “rivedere” (anche se forse non necessariamente a “riformare”) le leggi sulla capacità giuridica e la salute mentale, a dieci anni dalla data dell’entrata in vigore della CRPD, non si è potuto assistere al divieto del contatto fisico, alla detenzione o alla contenzione non consensuali, delle persone con disabilità. Concludo con una serie di suggerimenti relativi al significato dell’interfaccia della CRPD e del diritto interno, rispetto al divieto e al risarcimento della violenza (attualmente lecita) nei confronti delle persone con disabilità.

La Commissione per i Diritti Umani delle Nazioni Unite deve essere costante e coerente nel sollecitare gli Stati Parte a riformare le leggi penali e civili, affinché vengano vietate esplicitamente il contatto fisico, la detenzione o la contenzione non consensuali, compresi il trattamento sanitario obbligatorio, la reclusione e la contenzione chimica e fisica delle persone con disabilità. Gli organismi dei Diritti Umani delle Nazioni, devono continuare a incoraggiare gli Stati Parti a rimuovere o ritirare le dichiarazioni interpretative, che interpretano i Diritti Umani in modo tale che il trattamento sanitario, la reclusione e la contenzione non consensuali (anche se solo come “ultima ratio” o quando sono nel “migliore interesse”), siano consentiti. Purtroppo queste strategie potrebbero essere ostacolate dalle differenze che esistono tra gli organismi per i Diritti Umani delle Nazioni Unite, in relazione all’approccio alla disabilità e alla violenza, e alcuni Organismi dei Diritti Umani che non riconoscono la violenza legale specifica della disabilità, concentrandosi su un approccio di tutela “procedurale” per (regolamentare) la violenza. Le discrepanze tra gli organismi per i Diritti Umani delle Nazioni Unite, potrebbero consentire agli Stati Parte a scegliere come interpretare i loro obblighi relativi alla violenza, in modo tale che si concentrano essenzialmente ad affrontare genericamente la violenza “illecita”, ignorando l’eliminazione della violenza lecita, specifica della disabilità. Potrebbe essere necessario che gli organismi dei diritti umani delle Nazioni Unite, comincino a considerare il concetto di disabilità a sostegno dei loro approcci alla violenza nei confronti delle persone con disabilità, alcuni dei quali potrebbero precedere la CRPD e il suo passaggio da un approccio medico alla disabilità.

Gli Stati Parte devono seguire delle strategie addizionali (e gli organismi per i diritti umani delle Nazioni Unite dovrebbero incoraggiare gli Stati Parte a perseguirle), che includono:

1. Gli Stati Parte non dovrebbero limitare i loro sforzi di “riesame” e di “riforma” al conseguimento della prassi migliore in materia di vigilanza giudiziaria e amministrativa, per quanto riguarda la violenza lecita, specifica delle persone con disabilità (ossia attraverso garanzie procedurali) per mettere in discussione se alcune pratiche non devono mai essere sanzionate dallo Stato a chiunque (comprese le persone con disabilità) indipendentemente dalla procedura legale attraverso la quale si verifica l’atto sanzionatorio. E’ fondamentale rendere visibile e denominare i concetti sulla disabilità, insiti nella legge stessa, piuttosto che affrontare solo gli stereotipi sulla legge che circolano nell’applicazione o nell’esecuzione della legge, a livello individuale. Si tratta di concetti giuridici, procedure legali e giurisdizioni secolari e snaturati, - alcuni dei quali sono basilari per l’autorità legale in generale.

2. Gli Stati Parte dovrebbero prendere in considerazione l’intersezione dei concetti sulla disabilità con altre dimensioni dell’identità, particolarmente consapevoli delle identità delle persone alle quali si applicano in modo sproporzionato queste pratiche: per esempio di genere: ricovero e trattamento sanitario obbligatorio di donne; per l'età: contenzione chimica e fisica delle persone anziane con demenza nelle strutture per anziani; aborigeni: sovra-rappresentazione di reclusioni di aborigeni australiani nella psichiatria forense; genere e sterilizzazione; idee sulla criminalità delle persone che sono recluse nella strutture psichiatriche forensi.

3. Gli Stati Parte dovrebbero rivisitare i concetti sugli organismi e gli spazi previsti dalle leggi nazionali relative alla violenza, in particolare in relazione al sequestro di persona. Nelle leggi nazionali, la detenzione e la contenzione si concentrano su fattori esterni, che limitano il movimento del soggetto - ancora molti degli interventi, nel contesto specifico della disabilità agiscono dall’interno del corpo - per contenere e regolare dall’interno (per es. contenzione chimica [xv]).

4. Gli Stati Parte dovrebbero sviluppare una strategia per una “legislazione di transizione” [xvi] che affronti il divieto e renda giuridicamente utilizzabili i futuri casi di trattamento sanitario, reclusione e contenzione non consensuali e dedicarsi allo sviluppo di un sistema per riconoscere, risarcire e ricordare quei casi, quando in passato queste pratiche erano ancora lecite [xvii] Questo potrebbe portare a pensare, al di là della disabilità, a come la legge (entrambi i quadri giuridici, sia nazionali che internazionali) abbiano affrontato le atrocità di massa, le ingiustizie storiche e le violenze sanzionate dallo stato, in relazione ad altri gruppi di emarginati. Questo sistema non deve solo focalizzarsi sui singoli e sulle istituzioni che amministrano queste pratiche, ma anche indirizzare lo Stato e la legge, perché rispondano della loro complicità.

5. Gli Stati Parte dovrebbero affrontare il ruolo “para-legale” dei quadri normativi, come la bioetica (ad esempio ricerca, clinica, professionale) nel legittimare l’amministrazione di violenza lecita, specificatamente nella disabilità. [xviii]

6. Gli Stati Parte dovrebbero lavorare con i servizi sanitari, medici e ai servizi per i disabili per sfidare gli imperativi [xix], istituzionali, disciplinari e (soprattutto in un contesto sempre più privatizzato e corporativo) economici, per la prosecuzione dell’amministrazione della violenza lecita specificatamente in materia di disabilità.

7. Gli Stati Parte dovrebbero incoraggiare le riforme nell’ambito dell’istruzione giuridica universitaria, che consentirebbe di adottare, nei corsi di diritto penale e responsabilità civile, un approccio critico in materia di disabilità e della violenza specifica nella disabilità. In genere, i libri di testo di diritto riguardano il funzionamento delle difese in relazione alle persone con disabilità in maniera ovvia e acritica, che naturalizza poi il trattamento giuridico delle persone con disabilità e nega il loro essere sottoposti alla violenza, e alla complicità della legge e dello Stato in questa violenza.

In definitiva, il fatto che la legge ponga dei limiti più bassi di violenza, quando è in relazione alle persone con disabilità, riflette una svalutazione dei corpi e della vita delle persone con disabilità - fino a quando questo verrà perpetrato, i diritti umani delle persone con disabilità promessi dalla CRPD saranno incompleti, profondamente e in modo deludente.

Traduzione a cura di Erveda Sansi




[i] Convention on the Rights of Persons with Disabilities, opened for signature 13 December 2006, 2515 UNTS 3 (entered into force 3 May 2008).
[ii] See, e.g., Karen Hughes, Mark A Bellis, Lisa Jones, Sara Wood, Geoff Bates, Lindsay Eckley, Ellie McCoy, Christopher Mikton, Tom Shakespeare and Alana Officer, ‘Prevalence and Risk of Violence against Adults with Disabilities: A Systematic Review and Meta-Analysis of Observational Studies’ (2012) 379(9826) Lancet 1621.
[iii] See, e.g., Jess Cadwallader, Anne Kavanagh and Sally Robinson, ‘We Count What Matters, and Violence Against People with Disability Matters’, The Conversation, 27 November 2015, http://theconversation.com/we-count-what-matters-and-violence-against-people-with-disability-matters-51320, accessed 6 January 2016.
[iv] On ‘disability-specific lawful violence’ generally see, e.g., Linda Steele, ‘Disability, Abnormality and Criminal Law: Sterilisation as Lawful and Good Violence’ (2014) 23(3) Griffith Law Review 467; Submission to the Senate Community Affairs References Committee, Inquiry into violence, abuse and neglect against people with disability in institutional and residential settings, including the gender and age related dimensions, and the particular situation of Aboriginal and Torres Strait Islander people with disability, and culturally and linguistically diverse people with disability (2015).
[v] Robert Cover, ‘Violence and the Word’ (1986) 95 Yale Law Journal 1601.
[vi] Austin Sarat and Thomas R Kearns, ‘Introduction’ in Austin Sarat and Thomas R Kearns (eds), Law’s Violence (University of Michigan Press, 1992) 1, 4.
[vii] In the Australian context see, e.g., Secretary, Department of Health and Community Services v JWB (1992) 175 CLR 218.
[viii] In the UK and Australian context see, e.g., Re F (Mental Patient Sterilisation) [1990] 2 AC 1.
[ix] In the Australian context see, e.g., Coco v R (1994) 179 CLR 427.
[x] On best interests see, e.g., Linda Steele, ‘Making Sense of the Family Court’s Decisions on the Non-Therapeutic Sterilisation of Girls with Intellectual Disability’ (2008) 22(1) Australian Journal of Family Law 1.
[xi] See, e.g., Linda Steele, ‘Disability, Abnormality and Criminal Law: Sterilisation as Lawful and Good Violence’ (2014) 23(3) Griffith Law Review 467.
[xii] Committee on the Rights of Persons with Disabilities, General Comment No 1 (2014): Article 12: Equal recognition before the law, 11th sess, UN Doc CRPD/C/GC/1 (19 May 2014).
[xiii] Committee on the Rights of Persons with Disabilities, General Comment No 1 (2014): Article 12: Equal recognition before the law, 11th sess, UN Doc CRPD/C/GC/1 (19 May 2014); see also Report of the Working Group on Arbitrary Detention: United Nations Basic Principles and Guidelines on Remedies and Procedures on the Right of Anyone Deprived of Their Liberty to Bring Proceedings Before a Court, 30th sess, UN Doc A/HRC/30/37 (6 July 2015), notably Principle 20 and Guideline 20.
[xiv] Committee on the Rights of Persons with Disabilities, General Comment No 1 (2014): Article 12: Equal recognition before the law, 11th sess, UN Doc CRPD/C/GC/1 (19 May 2014) 11[42]. On non-consensual medical treatment, detention and restraint of people with disability as torture, see Dinesh Wadiwel, ‘Black Sites: Disability and Torture’, paper presented at Critical Social Futures: Querying Systems of Disability Support, Symposium of The Australia Sociological Association, 19 June 2015.
[xv] Erick Fabris, Tranquil Prisons: Chemical Incarceration under Community Treatment Orders (University of Toronto Press, 2011).
[xvi] See, e.g., Carolyn Frohmader and Therese Sands, Australian Cross Disability Alliance (ACDA) Submission to the Senate Community Affairs References Committee Inquiry into Violence, Abuse and Neglect Against People with Disability in Institutional and Residential Settings, August 2015.
[xvii] See, eg, Hege Orefellen, ‘Hege Orefellen on Reparations’, Campaign to Support CRPD Absolute Prohibition of Commitment and Forced Treatment, https://absoluteprohibition.wordpress.com/2016/02/06/hege-orefellen-on-reparations/, accessed 27 March 2016.
[xviii] The significance of bioethics is apparent from the controversy around Ashley X: see, e.g., Eva Feder Kittay, ‘Forever Small: The Strange Case of Ashley X’ (2011) 26(3) Hypatia 610.
[xix] On the ‘therapeutic industrial complex’ see, e.g., Michelle Chen, ‘How Prison Reform Could Turn the Prison-Industrial Complex Into the Treatment-Industrial Complex’, The Nation (20 November 2015) http://www.thenation.com/article/how-prison-reform-could-turn-the-prison-industrial-complex-into-the-treatment-industrial-complex/, accessed 29 March 2016.

Traduzione a cura di Erveda Sansi

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