giovedì 15 marzo 2018

Ricordo di Giorgio Antonucci - «La libertà è più salutare del manicomio» di Filippo Benfante

  

«La libertà è più salutare del manicomio» 

Ricordo di Giorgio Antonucci


a cura di Filippo Benfante 

 
Sabato 18 novembre è morto a Firenze Giorgio Antonucci, un medico e psicanalista che per più di vent’anni si è occupato di psichiatria nelle istituzioni pubbliche. Lo ricordiamo ripubblicando una sua vecchia intervista, realizzata da Filippo Benfante nel marzo 1999.
 
Nota. Giorgio Antonucci è un medico e psicanalista fiorentino. Si è occupato per più di vent’anni di psichiatria nelle istituzioni pubbliche. Ha iniziato nel 1968 a Cividale del Friuli, nel primo reparto di ospedale civile pensato in alternativa agli internamenti in manicomio. Nel 1969 ha lavorato a Gorizia, con Franco Basaglia. Dal 1970 al 1972 ha svolto la sua attività a Reggio Emilia. Infine è rimasto in servizio a Imola, sino a un paio di anni fa. Il testo che segue è estratto da una conversazione durata quasi due ore.

Questa dovrebbe essere un’intervista, ma io non ho preparato delle domande. Mi piacerebbe che fossi tu a parlare, magari cominciando dalle tue prime esperienze in campo psichiatrico.
 
Nel 1965 ero laureato in medicina da appena due anni e facevo ancora sostituzioni di medici condotti – i medici di base di adesso – che andavano in ferie. Però avevo avuto sempre interesse per la psicologia. Non per la psichiatria: anche all’università è stato un insegnamento che ho seguito distrattamente. Ma per la psicologia il discorso è diverso.
Sapendo di questo mio interesse, un amico mi invitò a una riunione che si teneva qui a Firenze presso l’istituto di “psicosintesi” del dott. Assagioli. Assagioli è stato uno dei primi a parlare di psicanalisi in Italia, dove la psicanalisi faceva ancora fatica a entrare, per l’influenza della chiesa e del fascismo e per il carattere un po’ chiuso della cultura italiana di quel tempo. Vedeva la psicologia in relazione a tutte le qualità creative, in particolar modo in rapporto con la mistica, tra l’altro era appassionato di filosofie orientali. Siccome io non sono mistico, ebbi una discussione con lui; però poi mi fece richiamare e mi disse che mi potevo occupare di problemi psicologici e che anzi mi avrebbe mandato delle persone che si rivolgevano a lui. Mi pareva un po’ azzardato, ma siccome insisteva, ci si mise d’accordo e poi si stabilì un rapporto.
Lui aveva una concezione tutto sommato accettabile. Diceva che quando si incontra una persona, per aiutarla a vivere meglio, bisogna stimolare le sue capacità creative. Questo è il significato di “psicosintesi”. È un’impostazione positiva, un suggerimento che ho seguito e mi è servito molto.
Quando ho cominciato a occuparmi di queste faccende mi sono accorto che mi capitavano persone di vario tipo, diversa cultura, vari modi di pensare. Da lì bisognava partire: dal loro modo di pensare. Una persona si costruisce con il suo pensiero, non col pensiero degli altri. Se una persona viene a chiedere aiuto è perché ha bisogno di chiarimenti, ma questi chiarimenti sono in rapporto con la sua personalità e la sua personalità è una sorgente di creatività. Questo è già qualcosa che non ha nulla a che fare con la psichiatria.
Lo psichiatra non pensa che la persona sia un soggetto creativo, pensa che ci siano dei comportamenti che vanno bene e dei comportamenti che vanno male, pensieri che vanno bene e pensieri che vanno male. Se pensa che vanno male, inizia a distinguere tra comportamenti che in termini generali si potrebbero dire “non saggi”, “non pertinenti” e questi pensieri da lui giudicati non pertinenti implicano un ipotetico difetto del cervello che sarebbe la malattia mentale. Adesso io l’ho fatta breve, puoi procedere più lentamente, attraverso più passaggi, però nella sostanza il procedimento è proprio questo.



Come ti sei comportato con queste persone conosciute da Assagioli?
 
Ti racconto di Elena, che frequentava il circolo di Assagioli perché si interessava di misticismo orientale. La conobbi, ci feci amicizia, ci incontravamo regolarmente. Lei mi parlava delle sue esperienze, per me assolutamente nuove, dei mistici indiani, mi leggeva le poesie di Tagore. Un giorno vado da Assagioli a fargli una visita di controllo (gli facevo da medico). Arrivo durante una sua discussione sull’opportunità di ricoverare Elena. Chiesi meravigliato i motivi di un ricovero in clinica psichiatrica. Mi disse che Elena aveva dei momenti in cui era presa da delirio persecutorio, diceva che i vicini la perseguitavano, diventava nervosa, non riusciva a dormire, si arrabbiava, si lamentava, telefonava continuamente. Elena aveva già avuto tre ricoveri a Settignano, in una casa di cura per malattie nervose e mentali, come si chiamavano, diretta da un dottore amico di Assagioli, e questa volta non ci voleva proprio andare. Chiesi di rinviare tutto di due settimane, dicendo che nel frattempo me ne sarei occupato io. Andai a parlare con Elena, che mi raccontò disperata di ricoveri fatti contro la sua volontà, con la forza praticamente, di medicine e di come si sentiva sottoposta a una grandissima ingiustizia. Lei stava alle Cure [un quartiere di Firenze], abitava da sola; i vicini erano quasi tutti comunisti e lei che aveva un modo di pensare molto diverso si sentiva già a disagio. Mi disse che non ce la faceva ad andare avanti, perché i vicini le facevano dispetti. Io le dissi che ce ne saremmo occupati insieme, parlai anche con i vicini, e vidi che c’erano dei problemi. Lei, magari, essendo sola, esagerava, vedeva in questi dissensi delle cose al di là di quel che succedeva, ma questo capita. È una cosa normalissima. Per farla breve: non è stata più ricoverata. Quando abbiamo iniziato a occuparci insieme degli affari suoi, della sua vita, non ci sono più stati problemi.
Assagioli alla fin fine non lo faceva, ma io ne tenevo conto sul serio della creatività e nella creatività ci sta anche il fatto di immaginarsi delle cose che non sembrano corrispondere alla realtà, ma la realtà non è fatta soltanto di una direzione sola. Noi non siamo fatti soltanto della realtà immediata, ma anche della paura e dell’immaginazione per cui si possono immaginare anche delle cose sbagliate, ma sbagliare non significa avere un cervello che non funziona. Immaginare e sbagliare fa parte della struttura fisiologica del cervello: il cervello indaga la realtà facendo delle ipotesi, che a volte si verificano e a volte no.
In questa storia c’è già tutto quello che ho poi fatto negli anni seguenti: il mio pensiero nei confronti delle persone e del mondo e il risultato pratico è che questa persona in clinica psichiatrica non ci è andata più.
Dalla storia di Elena, si capisce quanto sia importante il rapporto con una persona e la conoscenza della sua storia.
Sì, ma non basta. La conoscenza della storia può essere quella di certi psicanalisti, la conoscenza della storia nel senso di andare a cercare un difetto, l’evento che ha fatto deviare, che ha provocato un difetto psicologico. Io mi sono confrontato con Elena e la sua realtà tenendo conto della complessità del rapporto con questa realtà e del fatto che complessità non significa difetto. Le teorie correnti sono due. Una è quella degli psichiatri cosiddetti organicisti, che dice che quando una persona non torna negli schemi che loro stessi creano, allora ha un difetto organico, biochimico del cervello. L’altra teoria dice che il difetto non è organico o biologico ma è un difetto nella storia della persona. Io non ritengo di dover andare a trovare i difetti nelle persone che vengono da me. Con una persona che viene da me devo cercare, insieme, qual è il suo rapporto con la realtà e vedere qual è senza che questo implichi che c’è un rapporto normale, sano, dei sani di menti, e un rapporto anormale, malato, dei malati di mente. Per lo psichiatra c’è un difetto fisico, per lo psicanalista c’è un difetto psicologico. Questo riguarda anche Freud. Dopo la sua esperienza negli ospedali di Parigi, ha detto: ho smesso di fare il medico e ho iniziato a fare il biografo. Ma il problema è che le sue biografie sono pensate in cerca del difetto. Io rifiuto questa idea del difetto, non vedo qual è il modo di pensare e di essere giusto. Ci sono tanti modi di essere e di pensare, e tante storie.
Possiamo dire allora che sono storie raccontate e ascoltate senza pregiudizio.
Esatto. C’è un pregiudizio fondamentale alla base sia della psichiatria che della psicanalisi, ed è il determinismo: il fatto che si consideri degli esseri umani come degli orologi, dei meccanismi. Nei comportamenti vediamo degli effetti, che sono stati preceduti dalle cause. Un approccio determinista è contraddittorio in sé, prima di tutto perché non si possono mai vedere tutti gli elementi in gioco. Il determinista quando fa l’esperimento isola certi elementi, crea artificialmente le condizioni ideali, in caso contrario l’esperimento non riesce, anche nel campo delle scienze cosiddette esatte. Ammettendo, senza concederlo, che tutto quello che avviene a una persona sia dovuto a delle influenze ben determinate, resta che sono talmente tante che uno non le vede mai tutte, poi le dovrebbe interpretare. Il determinismo vale solo per situazioni semplici, non per situazioni complesse.
Io non credo che le persone siano orologi o flipper. Le macchine si possono guastare, le persone no. Ci sono secoli di filosofia che parlano della libertà e della scelta dell’uomo. Le persone sono soggetti di scelta, sentono responsabilità e colpa e non si considerano macchine. La vita di una persona è fatta di scelte e di invenzioni continue. Ogni persona è diversa dall’altra e ogni persona è anche diversa da se stessa in ogni momento. Quando si incontra una persona non si incontra un orologio da accomodare, ma una persona che si presenta attraverso le proprie esperienze, le proprie scelte e con i propri problemi, quelli che impediscono il realizzarsi delle proprie scelte. Questo è psicologia: partire dai problemi, il resto è ciarlataneria.

Come si può conciliare la complessità delle persone con risposte istituzionali, che vogliono essere rapide, “efficienti”, per forza semplici?
 
È un lavoro difficile. Ci sono situazioni drammatiche, in cui i conflitti sono grandi e urgenti. Le persone sono tutte complicate. Non a caso la psichiatria è così potente e affermata: perché non si preoccupa della complessità, offre una soluzione pratica e rapida. Se una ragazza fa una vita che non piace ai genitori e questi non riescono a influire nelle sue scelte in contraddizione con loro, lo psichiatra interviene e semplifica. Prima limita psicologicamente la persona, definendo la norma, cosa si può fare e cosa no; poi interviene chimicamente; se la persona non si semplifica né con le prediche che loro chiamano psicoterapia, né con le medicine, c’è il ricovero. Alla fine si esercitano tutti gli strumenti di forza per costringere una personalità a semplificarsi e a essere adatta quello che richiedono le istituzioni, a cominciare dalla famiglia.
È chiaro che quando si discute con una persona creativa non puoi smettere di tenere conto del mondo che c’è intorno, altrimenti non serve a niente; però non puoi escludere nemmeno tutta l’altra parte del tuo interlocutore. Quando vedo che le iniziative che possono facilmente avere per risultato l’esclusione dalla società, allora non dico che la persona ha torto o ha sbagliato, ma l’avviso, la metto in guardia, in modo che la sua creatività non la porti in conflitto con la società: essendo l’individuo più debole della struttura sociale, ne sarebbe travolto. Si discute su questa base: io ho la mia creatività, i miei pensieri, le mie scelte, il mondo è quello che è, allora adesso cosa facciamo? Non sulla base di un difetto, ma sulla base realistica che bisogna confrontarsi con quelli che ci stanno intorno, se no si rischia di essere travolti.

Mi ha colpito la parola realismo. Mi sembra che sia facile, per chi non lo condivide, accusare il tuo metodo di essere poco realista e poco pratico: prevede risposte individuali, senza modelli o casistiche prefabbricate.
 
Non c’è solo la praticità brutale di chi prende ogni persona che non gli piace e la sbatte in manicomio oppure ne dà una definizione che la taglia fuori dalla società civile. C’è anche la praticità che io ho applicato assieme a Elena, la stessa che ho applicato per 23 anni al manicomio di Imola, prendendo le persone che erano in camicia di forza e portandole fuori. Io vengo dalla pratica: ho preso in mano degli orribili reparti, con dentro rinchiuse persone definite schizofreniche, considerate pericolose, incapaci di vivere nella società e le ho riportate a vivere fuori.
La mia pratica sarà più complessa ma salva le persone e questo fa parte dei compiti di un medico. La libertà è molto più salutare del manicomio.
Le semplificazioni sembrano più realistiche, ma allora si potrebbe dire allo stesso modo che una dittatura è più pratica di una democrazia, ma non è un buon motivo per scegliere la dittatura e mutilare la ricchezza, la varietà e la complessità di una democrazia. Io rivendico il realismo del mio metodo. Che cosa c’entra mai il complesso di Edipo con una persona? Sono gli psichiatri e gli psicanalisti, che riducono a schemi astratti le persone, ad allontanarsi dalla realtà: non è realistico pensare che ogni persona che non pensa come me è una persona sbagliata. Non è realistico considerare che Van Gogh era uno schizofrenico, che Michelangelo era un depresso, che Dante era un malinconico e altre storie del genere. Non solo non è pratico, ma è anche culturalmente una via che non conduce a nulla: se ai tempi di Dante ci fosse stato l’elettrochoc, non avremmo la Divina Commedia.
Il vero problema è che il 90% delle persone pratica idee e modi della psichiatria. Il restante 10% di cui faccio parte è circondato in modo tale che la sua opera può essere demolita da un momento all’altro. Non è un problema di praticità, è un problema di peso sociale. Se ci fosse un movimento di carattere generale, i manicomi non ci sarebbero più. 

La legge 180 del 1978, da tutti identificata con il nome di Franco Basaglia, ha chiuso i manicomi italiani.
 
Non è che chiudendo i manicomi e basta si risolva il problema. Non è un bar che si chiude e vanno tutti via. Se non c’è una critica al pensiero psichiatrico non serve a nulla. Dire che il manicomio fa male è una banalità priva di significato, come dire che un campo di concentramento non fa bene. Se si parte dal giudicare difettosa una persona che ha un pensiero e un comportamento che non tornano con i propri schemi mentali, si arriva comunque a una qualche forma di manicomio. Se si parte dal considerare gli ebrei razza inferiore e pericolosa, si arriva a una forma di campo di concentramento.
Basaglia va visto nella sua complessità. Intanto ha fatto un lavoro utile: ha preso un manicomio e ha iniziato a smantellarlo, togliere le camicie di forza, aprire le porte, discutere con gli internati, fare le assemblee. È stato il primo che l’ha fatto e questo non si discute. E poi aveva insistito su una cosa: proseguire sulla strada intrapresa, non tornare mai più indietro. Ma questo implica anche la possibilità di cominciare a pensare in un modo tutto nuovo.
Però Basaglia ha sempre rifiutato di prendere posizione, almeno ufficialmente, su una critica radicale al pensiero psichiatrico, anche se alcuni suoi spunti sembravano portare proprio a questo. Gli resta senza dubbio l’intuizione: senza l’intuizione che le persone non sono come la psichiatria le classifica, non avrebbe potuto fare quello che ha fatto. Non sleghi delle persone se pensi che sono assurde e senza nessun tipo di logica; le sleghi se pensi che sono persone come te, con la loro complessità. Basaglia diceva anche di non classificare le persone, ma chi lo ha seguito ha continuato a farlo. E si badi che qui c’è il punto di convergenza tra psichiatria e razzismo. Si tratta di un razzismo su base psicologica, meno brutale di quello su base genetica e pertanto ancora più pericoloso, più facile a insinuare. Schizofrenico non vuol dire nulla, come tutte le categorie che usa la psichiatria: non spiega né modifica la persona a cui si applica. Serve solo a aggiungere una nota negativa, un pregiudizio, una condizione di inferiorità sociale: se mi presentano una persona come schizofrenico, so già che devo stare in guardia.
I medici che sono venuti dopo Basaglia si sono ripiegati sul discorso del manicomio da superare e le strutture alternative. È un discorso che non significa nulla perché il manicomio può avere molte forme. La struttura alternativa oggi è il “centro diagnosi e cura” degli ospedali civili, dove si viene rinchiusi come in manicomio e vengono fatte le stesse cose.
Se penso che tu sei una persona che a un certo punto non puoi più decidere da sola, e io posso decidere per te, e ti devo portare in un luogo per prendere le decisioni al tuo posto, il manicomio è fatto. Tu non vuoi venire, allora chiamo le guardie e ti ci faccio portare; quando sei lì non ci vuoi stare, allora chiudo la porta, se ti chiudo dentro mi spacchi la stanza, allora ti lego al letto, oppure ti faccio la puntura per stordirti e neutralizzarti, che è lo stesso.
Se parto dall’idea che una persona può essere presa con la forza perché da sé non è capace di decidere. Inutile negare il manicomio senza mettere in discussione il trattamento sanitario obbligatorio, come hanno fatto gli allievi di Basaglia. Dove si mettono le persone con la forza? Da qualche parte e quel “qualche parte” diventa manicomio, non importa se è un vecchio edificio dell’Ottocento o un ospedale moderno.
Il fatto è che nessuno ha messo in discussione la disciplina, nessuno si è interrogato sul senso dell’esistenza della psichiatria. Nessuno chiede o si chiede che cosa vuol dire essere malato di mente.
Nota. Questo testo è stato pubblicato per la prima volta sul numero 40 di “fuori binario giornale di strada dei senza dimora” che tuttora esce a Firenze, grazie a Maria Pia Passigli e altri volontari, sotto il titolo Psichiatria e creatività – intervista al prof. Antonucci, a cura di Filippo Benfante (p. 10). L’occasione era stata una lunga conversazione che avevo avuto con Giorgio Antonucci presso la sua abitazione, a Firenze, in uno dei viali del Campo di Marte che girano intorno allo stadio, il 23 marzo 1999. Era un incontro organizzato dal nostro comune amico Piero Colacicchi.
Piero e Giorgio erano amici si può dire fraterni; non avevano mai smesso di frequentarsi da quando si erano conosciuti nel 1967, nell’ambito del laboratorio artistico “La Tinaia” creato nell’ospedale psichiatrico di San Salvi, a Firenze, e poi avevano condiviso – con ruoli diversi – l’esperienza delle “calate” sull’ospedale psichiatrico di Reggio Emilia, che abbiamo documentato anche sul nostro sito. Questa breve nota è anche un modo per riunirli ancora una volta.
Piero era arrivato a casa di Antonucci con un registratore e una cassetta da 50 minuti, che non bastò; il testo finale rimonta parti trascritte dalla registrazione e parti su cui avevo preso semplici appunti su carta.
In vista della pubblicazione su “fuori binario”, discussi trascrizione integrale, appunti e versione finale con Piero Brunello e Luca Pes, con i quali avevo già ragionato delle questioni che pongono questo genere di lavori quando formavamo la redazione della rivista “Altrochemestre”.
A questi amici, il mio ringraziamento pubblico a distanza di quasi vent’anni. (f.b.)

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