Il reparto Quattordici
da: Nunzia Manicardi, Italiani da slegare - Contenzione la vergogna del silenzio, Koinè Nuove Edizioni, 2010
“L’uomo che per caso vive
ancora libero credo non abbia una idea concreta di cosa significa essere
internati e magari passare anni in camicia di forza. Non molti si figurano
l’esperienza di chi viene sequestrato all’improvviso senza avviso e senza
spiegazioni. Viene il momento in cui nessuno ti prende più sul serio come essere
pensante e questi appare come un cambiamento senza ritorno. Ormai senti
solo dei gridi di comando come si usa con gli animali. Chi cerca di
salvarsi, o tenta di ricuperare terreno, annaspa e affonda sempre di più in modo
disperato come i prigionieri nelle sabbie mobili.
Le diagnosi psichiatriche
tolgono in modo difficilmente rimediabile il diritto di partecipare alla
pari alla vita degli altri e sono sufficienti per escludere le persone dalla
comunità sociale, anche senza bisogno del sequestro e dell’isolamento. Con molta
probabilità è per questo motivo che negli ultimi anni alcuni psichiatri
hanno pensato che nella vita civile si potrebbe fare a meno dei manicomi,
avendo a disposizione altre forme efficaci di controllo o di
squalificazione delle persone che sono giudicate di troppo o socialmente fastidiose.
Impaurita dalla propria
complessità e ricchezza psicologica, la maggioranza degli uomini si
sottomette volentieri a semplificazioni false e artificiali per condurre una vita
apparentemente più sicura. Ma il concetto di normale e anormale in materia
psicologica non ha nessun significato. Nessuno ha il diritto di
obbligare gli altri al proprio modo di pensare e di vivere. Tanto meno sotto il pretesto
di curare il cervello. Già Kant scriveva che i medici della mente inventano
una malattia ogni volta che trovano un nome. Se però si pensa che il fine
degli psichiatri è il controllo del pensiero, allora tutto risulta chiaro e
comprensibile...”.
Chi dice queste parole è il
medico psicanalista fiorentino Giorgio Antonucci, che negli anni
Settanta è stato tra i primi in Italia a liberare, letteralmente e materialmente, i
malati psichiatrici dalle catene e che ancora si batte perché tale liberazione
rimanga e diventi effettiva e totale. Per questa sua attività il
dottor Antonucci ha ricevuto nel 2005
a Los Angeles il Thomas Szasz Award
e, contemporaneamente, un riconoscimento dall’Assemblea legislativa
della California, nonché dal CCDU Comitato Cittadini per i Diritti
Umani. Così ricorda:
“Il Reparto Quattordici
dell’Istituto Psichiatrico Osservanza di Imola...Era chiamato 'il padiglione
delle donne agitate'. Come potrei dimenticarlo? Presso i manicomi di Imola ho
lavorato dal 1973 al 1996, dopo essere stato a Cividale del Friuli, a Gorizia
con Basaglia e al Centro di Igiene Mentale di Reggio Emilia.
L’Istituto Osservanza di
Imola aveva, in ogni reparto, porte di metallo spesso, verniciate di color
grigio, tutte compatte come potrebbero essere i portoni di una diga. Le mura
intorno al cortile erano gialle e altissime. I grandi alberi del parco,
antichi e rigogliosi, in mezzo all’ambiente carcerario facevano un effetto triste.
Quello tuttavia che più ancora colpiva era il deserto fra i reparti
nonostante il numero grandissimo dei ricoverati. Ci si domandava: ‘Ma dove sono queste
mille e quattrocento persone?’.
All’interno del Reparto
Quattordici la situazione era ancora meno allegra. Superata la porta di ferro si
entrava in un corridoio dai soffitti altissimi e bianchi. Sul lato destro
c’erano le celle, chiuse da solide e spesse porte di legno interrotte solo dallo
spioncino. Su quello sinistro si notavano finestre molto alte, che attraverso le
inferriate lasciavano intravedere un cortile disadorno, costruito in cemento
bianco, con solo due piccoli alberi al centro e circondato da mura
insuperabili.
Delle donne lì ricoverate,
che variavano da quaranta a cinquanta a seconda del movimento di espulsione
dagli altri reparti, la maggior parte viveva immobilizzata in camicia di
forza o con altri mezzi di contenzione, e alcune avevano la maschera sulla
bocca, che serviva a impedire di sputare. Altre erano legate agli alberi del
cortile. Si udivano lamenti e urla quasi in continuazione con silenziosi
momenti di pausa. Il lavoro principale del personale di assistenza era
togliere e mettere i mezzi di contenzione per dare il cibo alle internate o per
pulirle dagli escrementi e dalle urine. Tutti gli altr reparti
dell’istituto, cominciando da quelli di ingresso cosiddetti di osservazione, erano
più o meno nelle stesse condizioni, perché governati con gli stessi
criteri e con i medesimi principi.
Il viaggio istituzionale,
tolto per quelli che venivano dimessi in tempi brevi (cosa che accadeva molto di
rado), era il passaggio da reparto a reparto, dall’esterno verso l’interno,
e l’ultimo luogo era rappresentato dai ‘reparti delle donne e degli uomini
agitati’ dove finivano le persone più ostinate o più ribelli.
Gli internati dell’intero
istituto vivevano per lo più ammucchiati. I sentimenti dominanti fra tutti
erano senza dubbio dolore e paura. Le condizioni statiche e l’intossicazione
avevano accelerato l’invecchiamento. Si vedevano persone molto giovani
precocemente sciupate con il viso turgido e la pelle rovinata e il modo di
camminare e i movimenti del corpo largamente compromessi. Alla completa
reclusione si aggiungevano gli elettroshock, i coma insulinici ripetuti, i
neurolettici, i tranquillanti e altre medicine dannose, le crisi febbrili
procurate a scopo di cura, e ancora diverse forme di compromissione della
personalità e dell’intero organismo attraverso il danneggiamento delle attività
fisiologiche o l’alterazione degli organi e delle regolari funzioni del sistema
nervoso centrale e periferico. Avevano le ossa fragili e i muscoli deboli.
Alcune persone portavano le cicatrici della lobotomia.
Le donne del Reparto
Quattordici vivevano tristemente nell’abbandono e nella sporcizia. Le celle e i
corridoi erano di color bianco ingiallito e tutto era disadorno. I gabinetti
erano buche per terra dietro porte con lo spioncino. Non avevano vestiti e non
avevano oggetti personali di alcun genere: portavano camici grigi o di
altri colori uniformi forniti dall’istituto. Non avevano biancheria intima né
luoghi dove ritirarsi senza essere vedute. Nessun comodino o armadio o altri
mobili per uso individuale. I letti erano fissati al pavimento e avevano le
maniglie per le contenzioni.
Quelle che potevano stare a
tavola, e così era per tutti i reparti, disponevano solo del cucchiaio e
avevano tazze o piatti di stagno o di plastica. Quelle che mangiavano legate
al letto erano imboccate. Non c’erano coltelli né forchette né tovaglie.
I cibi erano obbligati e
senza scelta, l’assimilazione era compromessa dall’immobilità.
Sopravvivevano solo i più resistenti. Alcune infermiere mi raccontavano che chi era
legato e rifiutava, anche occasionalmente, di mangiare e di bere veniva
costretto con la forza per mezzo di sonde rigide che spaccavano le gengive e
rompevano quei pochi denti che erano stati lasciati dagli elettroshock. Di notte
si sentiva il canto degli usignoli e di altri uccelli. Lì dentro era rinchiusa la
nostra fantasia, erano serrati i desideri e le passioni.
Riflettei sul lavoro che mi
aspettava... Le persone legate al letto le slegai con le mie mani.
Vissute per tempi
immemorabili nella paura e nell’immobilità, le donne del Reparto Quattordici
stentavano a rendersi conto che per loro potevano cominciare a riaprirsi alcune
prospettive diverse.
Appena liberate dalle camicie
di forza e dagli altri mezzi di contenzione, cercavano di camminare per il
parco. Molte di loro cadevano a terra, si muovevano con difficoltà, deboli
nei muscoli e nelle ossa, e per questi motivi, per la mancanza di pratica,
dovevano essere accompagnate e sorrette. Poiché le infermiere erano,
nella maggior parte dei casi, restie a farlo, provvedevo direttamente io.
I dissidi tra il personale
sulle novità del mio lavoro sono stati, insieme alle ripicche e ai sabotaggi che
ne sono derivati, una delle tante aspre difficoltà dei miei anni di Imola, dal
primo giorno fino all’ultimo. Le persone che lavoravano con me mi seguivano
solo a patto che mi assumessi tutte le responsabilità da solo. Nei
primi tempi mi volevano eliminare e mi fu sospeso
un mese di stipendio senza
sapere il perché. Non fui difeso nemmeno dai sindacati. Gli avvocati di
diritto amministrativo a cui mi rivolsi a Bologna non combinarono mai nulla e
non seppero mai fornirmi spiegazioni convincenti.
Dopo un mese di lavoro
continuato da quando avevo cominciato a slegare le donne del Reparto
Quattordici, queste ultime – tutte e quarantaquattro – uscirono nel parco. Dopo iniziai
la demolizione dei muri, e poi la rimozione delle inferriate e delle
porte di ferro. E così feci in tutti i reparti. I mezzi di contenzione erano di varia
qualità, o per immobilizzare l’intero corpo, o per fermare le braccia, o per
legare le gambe, o per fissare al letto il torace. Io li tolsi uno per uno, poi
li misi tutti in alcuni sacchi e li mandai in direzione.”
pagg.
147- 151
Nessun commento:
Posta un commento