lunedì 25 settembre 2017

Giorgio Antonucci: Il reparto Quattordici - Nunzia Manicardi: Italiani da slegare



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Il reparto Quattordici

 da: Nunzia Manicardi, Italiani da slegare - Contenzione la vergogna del silenzio, Koinè Nuove Edizioni, 2010 


“L’uomo che per caso vive ancora libero credo non abbia una idea concreta di cosa significa essere internati e magari passare anni in camicia di forza. Non molti si figurano l’esperienza di chi viene sequestrato all’improvviso senza avviso e senza spiegazioni. Viene il momento in cui nessuno ti prende più sul serio come essere pensante e questi appare come un cambiamento senza ritorno. Ormai senti solo dei gridi di comando come si usa con gli animali. Chi cerca di salvarsi, o tenta di ricuperare terreno, annaspa e affonda sempre di più in modo disperato come i prigionieri nelle sabbie mobili.


Le diagnosi psichiatriche tolgono in modo difficilmente rimediabile il diritto di partecipare alla pari alla vita degli altri e sono sufficienti per escludere le persone dalla comunità sociale, anche senza bisogno del sequestro e dell’isolamento. Con molta probabilità è per questo motivo che negli ultimi anni alcuni psichiatri hanno pensato che nella vita civile si potrebbe fare a meno dei manicomi, avendo a disposizione altre forme efficaci di controllo o di squalificazione delle persone che sono giudicate di troppo o socialmente fastidiose.

 
Impaurita dalla propria complessità e ricchezza psicologica, la maggioranza degli uomini si sottomette volentieri a semplificazioni false e artificiali per condurre una vita apparentemente più sicura. Ma il concetto di normale e anormale in materia psicologica non ha nessun significato. Nessuno ha il diritto di obbligare gli altri al proprio modo di pensare e di vivere. Tanto meno sotto il pretesto di curare il cervello. Già Kant scriveva che i medici della mente inventano una malattia ogni volta che trovano un nome. Se però si pensa che il fine degli psichiatri è il controllo del pensiero, allora tutto risulta chiaro e comprensibile...”.

Chi dice queste parole è il medico psicanalista fiorentino Giorgio Antonucci, che negli anni Settanta è stato tra i primi in Italia a liberare, letteralmente e materialmente, i malati psichiatrici dalle catene e che ancora si batte perché tale liberazione rimanga e diventi effettiva e totale. Per questa sua attività il dottor Antonucci ha ricevuto nel 2005 a Los Angeles il Thomas Szasz Award e, contemporaneamente, un riconoscimento dall’Assemblea legislativa della California, nonché dal CCDU Comitato Cittadini per i Diritti Umani. Così ricorda:
 
“Il Reparto Quattordici dell’Istituto Psichiatrico Osservanza di Imola...Era chiamato 'il padiglione delle donne agitate'. Come potrei dimenticarlo? Presso i manicomi di Imola ho lavorato dal 1973 al 1996, dopo essere stato a Cividale del Friuli, a Gorizia con Basaglia e al Centro di Igiene Mentale di Reggio Emilia. 

L’Istituto Osservanza di Imola aveva, in ogni reparto, porte di metallo spesso, verniciate di color grigio, tutte compatte come potrebbero essere i portoni di una diga. Le mura intorno al cortile erano gialle e altissime. I grandi alberi del parco, antichi e rigogliosi, in mezzo all’ambiente carcerario facevano un effetto triste. Quello tuttavia che più ancora colpiva era il deserto fra i reparti nonostante il numero grandissimo dei ricoverati. Ci si domandava: ‘Ma dove sono queste mille e quattrocento persone?’.

All’interno del Reparto Quattordici la situazione era ancora meno allegra. Superata la porta di ferro si entrava in un corridoio dai soffitti altissimi e bianchi. Sul lato destro c’erano le celle, chiuse da solide e spesse porte di legno interrotte solo dallo spioncino. Su quello sinistro si notavano finestre molto alte, che attraverso le inferriate lasciavano intravedere un cortile disadorno, costruito in cemento bianco, con solo due piccoli alberi al centro e circondato da mura insuperabili.
 
Delle donne lì ricoverate, che variavano da quaranta a cinquanta a seconda del movimento di espulsione dagli altri reparti, la maggior parte viveva immobilizzata in camicia di forza o con altri mezzi di contenzione, e alcune avevano la maschera sulla bocca, che serviva a impedire di sputare. Altre erano legate agli alberi del cortile. Si udivano lamenti e urla quasi in continuazione con silenziosi momenti di pausa. Il lavoro principale del personale di assistenza era togliere e mettere i mezzi di contenzione per dare il cibo alle internate o per pulirle dagli escrementi e dalle urine. Tutti gli altr reparti dell’istituto, cominciando da quelli di ingresso cosiddetti di osservazione, erano più o meno nelle stesse condizioni, perché governati con gli stessi criteri e con i medesimi principi.
 
Il viaggio istituzionale, tolto per quelli che venivano dimessi in tempi brevi (cosa che accadeva molto di rado), era il passaggio da reparto a reparto, dall’esterno verso l’interno, e l’ultimo luogo era rappresentato dai ‘reparti delle donne e degli uomini agitati’ dove finivano le persone più ostinate o più ribelli.

Gli internati dell’intero istituto vivevano per lo più ammucchiati. I sentimenti dominanti fra tutti erano senza dubbio dolore e paura. Le condizioni statiche e l’intossicazione avevano accelerato l’invecchiamento. Si vedevano persone molto giovani precocemente sciupate con il viso turgido e la pelle rovinata e il modo di camminare e i movimenti del corpo largamente compromessi. Alla completa reclusione si aggiungevano gli elettroshock, i coma insulinici ripetuti, i neurolettici, i tranquillanti e altre medicine dannose, le crisi febbrili procurate a scopo di cura, e ancora diverse forme di compromissione della personalità e dell’intero organismo attraverso il danneggiamento delle attività fisiologiche o l’alterazione degli organi e delle regolari funzioni del sistema nervoso centrale e periferico. Avevano le ossa fragili e i muscoli deboli. Alcune persone portavano le cicatrici della lobotomia.


Le donne del Reparto Quattordici vivevano tristemente nell’abbandono e nella sporcizia. Le celle e i corridoi erano di color bianco ingiallito e tutto era disadorno. I gabinetti erano buche per terra dietro porte con lo spioncino. Non avevano vestiti e non avevano oggetti personali di alcun genere: portavano camici grigi o di altri colori uniformi forniti dall’istituto. Non avevano biancheria intima né luoghi dove ritirarsi senza essere vedute. Nessun comodino o armadio o altri mobili per uso individuale. I letti erano fissati al pavimento e avevano le maniglie per le contenzioni. 



Quelle che potevano stare a tavola, e così era per tutti i reparti, disponevano solo del cucchiaio e avevano tazze o piatti di stagno o di plastica. Quelle che mangiavano legate al letto erano imboccate. Non c’erano coltelli né forchette né tovaglie.

I cibi erano obbligati e senza scelta, l’assimilazione era compromessa dall’immobilità. Sopravvivevano solo i più resistenti. Alcune infermiere mi raccontavano che chi era legato e rifiutava, anche occasionalmente, di mangiare e di bere veniva costretto con la forza per mezzo di sonde rigide che spaccavano le gengive e rompevano quei pochi denti che erano stati lasciati dagli elettroshock. Di notte si sentiva il canto degli usignoli e di altri uccelli. Lì dentro era rinchiusa la nostra fantasia, erano serrati i desideri e le passioni.



Riflettei sul lavoro che mi aspettava... Le persone legate al letto le slegai con le mie mani.
 
Vissute per tempi immemorabili nella paura e nell’immobilità, le donne del Reparto Quattordici stentavano a rendersi conto che per loro potevano cominciare a riaprirsi alcune prospettive diverse.

Appena liberate dalle camicie di forza e dagli altri mezzi di contenzione, cercavano di camminare per il parco. Molte di loro cadevano a terra, si muovevano con difficoltà, deboli nei muscoli e nelle ossa, e per questi motivi, per la mancanza di pratica, dovevano essere accompagnate e sorrette. Poiché le infermiere erano, nella maggior parte dei casi, restie a farlo, provvedevo direttamente io. 
 
I dissidi tra il personale sulle novità del mio lavoro sono stati, insieme alle ripicche e ai sabotaggi che ne sono derivati, una delle tante aspre difficoltà dei miei anni di Imola, dal primo giorno fino all’ultimo. Le persone che lavoravano con me mi seguivano solo a patto che mi assumessi tutte le responsabilità da solo. Nei primi tempi mi volevano eliminare e mi fu sospeso


un mese di stipendio senza sapere il perché. Non fui difeso nemmeno dai sindacati. Gli avvocati di diritto amministrativo a cui mi rivolsi a Bologna non combinarono mai nulla e non seppero mai fornirmi spiegazioni convincenti.
 
Dopo un mese di lavoro continuato da quando avevo cominciato a slegare le donne del Reparto Quattordici, queste ultime – tutte e quarantaquattro – uscirono nel parco. Dopo iniziai la demolizione dei muri, e poi la rimozione delle inferriate e delle porte di ferro. E così feci in tutti i reparti. I mezzi di contenzione erano di varia qualità, o per immobilizzare l’intero corpo, o per fermare le braccia, o per legare le gambe, o per fissare al letto il torace. Io li tolsi uno per uno, poi li misi tutti in alcuni sacchi e li mandai in direzione.”

 pagg. 147- 151



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