Tesi di laurea di Clarissa Brigidi in Filosofia della storia.
I° Parte
La solitudine della persona internata in manicomio è senza paragoni.
“Non è solo celle, spioncini e cortili. E nemmeno soltanto
psicofarmaci e elettroshock. È’ invece isolamento assoluto di chi, al
contrario di tutti gli altri internati di carcere o di lager, è
considerato, sia pure arbitrariamente, senza pensiero, o, che è lo
stesso, privo di un pensiero razionale o, come si dice, con un pensiero
malato”. Giorgio Antonucci
“Fatto sta che all’ospedale di Imola, ci sono dei reparti chiusi
dove i ricoverati girano in tondo con tranquilla disperazione e dei
reparti aperti (una minoranza) dove uomini e donne che sono stati legati
a letti per anni e considerati irrecuperabili ora girano pacifici,
liberi di entrare e uscire. Hanno smesso di essere violenti e
irresponsabili nel momento in cui si è smesso di trattarli con violenza,
come degli irresponsabili”. Dacia Maraini, Paese sera, 6/7/1980
C. B: Qual è stata la sua esperienza all’interno
dell’istituzione psichiatrica in Italia, riferendosi in modo particolare
al periodo in cui ha lavorato a Gorizia? Che cosa significava in quel
momento operare per lo smantellamento del manicomio?
G.A. Sono stato chiamato a Gorizia nel 1969 dopo avere
incontrato più volte alla “Tinaia” Cotti e Tesi: Cotti è un professore
di Bologna ed è stato uno dei primi in Italia ad aver tentato di
cambiare le cose, al manicomio Roncati di Bologna, cercando di
instaurare con le persone internate un rapporto di dialogo finalizzato
alla loro restituzione alla vita civile. Basaglia informò Cotti che
c’era un nuovo reparto dell’Ospedale Civile di Cividale del Friuli,
indicato come reparto neurologico, che poteva essere utilizzato come
reparto di ospedale civile in alternativa al manicomio. Allora Cotti
decise di lasciare provvisoriamente Bologna per andare a Cividale a
tentare questa nuova esperienza. E siccome mi aveva conosciuto per il
lavoro che facevo a Firenze di evitare l’internamento alle persone, mi
propose di andare a lavorare con lui. La stessa cosa fu proposta ad un
medico che già lavorava a Gorizia con Basaglia: il dottor Leopoldo Tesi.
In questo modo si formò un gruppo di tre medici accomunati dalla
convinzione che le persone con cui avevamo a che fare non erano persone
malate da curare, ma individui spesso emarginati socialmente con i quali
discutere problemi.
Questo è stato il primo reparto di un ospedale
civile, che Cotti aveva chiamato Centro di relazioni umane, in
alternativa all’internamento in manicomio, tanto che vi arrivavano anche
persone da Gorizia mandate da Basaglia. Per cui, siamo nel 1968, già a
quell’epoca mi ero interessato di persone che si trovavano in
situazioni difficili e che venivano dal manicomio di Gorizia diretto da
Basaglia. Di solito me ne occupavo prevalentemente io perché, abitando a
Firenze, non tornavo praticamente mai a casa e stavo lì sempre, notte e
giorno e lavoravo in continuazione.
Basaglia, che ci veniva a trovare piuttosto spesso, mi aveva conosciuto
bene anche nel periodo in cui io stavo a Firenze perché ci eravamo
sentiti telefonicamente per il mio lavoro di evitare internamenti. Così
aveva conosciuto il mio modo di rapportarmi con le persone, che era un
modo diretto, in cui io mi impegnavo a parlare oppure a condividere con
loro delle situazioni.
Per esempio a Cividale del Friuli c’era una
ragazza che quando era in crisi batteva la testa nel muro e allora
cercavo di impedirglielo senza l’utilizzo della forza, semplicemente
ponendo qualcosa tra lei e il muro. E poi una volta, siccome noi due
polemizzavamo quando si faceva male perché io le dicevo che mi sembrava
che potesse esprimere le stesse cose in un altro modo, mi misi a battere
la testa anch’io, così lei smise immediatamente e riprendemmo la
discussione. Basaglia conosceva di me queste ed altre cose, così, quando
nel settembre del 1968 questo reparto fu chiuso con la forza,
soprattutto perché le persone erano sempre in giro per il paese invece
di essere chiuse dentro alle proprie stanze, invitò me e Tesi, nel 1969,
a lavorare a Gorizia. Gorizia era una realtà complessa perché
all’interno della stessa istituzione convivevano tre diverse posizioni.
Basaglia affermava che il manicomio doveva a tutti i livelli essere
superato definitivamente, come spiegò anche nel libro L’istituzione
negata. Nella pratica ciò significava non tanto migliorare il manicomio,
quanto cercare di collocare le persone al di fuori di esso. Cosa
significa opera di smantellamento? Si trovano persone rinchiuse in cella
e si aprono le celle; ci sono persone in camicia di forza e si tolgono
loro le camicie di forza; si trovano ostacoli per poter circolare
all’interno di queste istituzioni che sono tutte a compartimenti
separati l’uno dall’altro e si tolgono i compartimenti. Poi, problema
centrale, si comincia a discutere con gli internati.
Basaglia aveva
organizzato l’ospedale con riunioni e assemblee: riunioni particolari in
ogni singolo reparto, in modo che un luogo di assoluta segregazione
diventasse un luogo di dibattito e discussione. Basaglia aveva aperto
questa enorme contraddizione: unico in tutto il mondo, un direttore di
istituto psichiatrico, anziché portare avanti l’istituto, voleva
distruggerlo. Quindi la sua posizione era esattamente quella contro il
manicomio, ma come dicevo prima, c’erano anche coloro che lo seguivano
parzialmente in questo suo lavoro e coloro che volevano mantenere il
manicomio perché pensavano che fosse utile. Io, quando sono arrivato a
Gorizia, ho trovato delle situazioni complicate: ti posso raccontare a
questo proposito un episodio. Ero appena arrivato e non avevo ancora
avuto l’assegnazione dei reparti. Una domenica- ero di guardia, quindi
avrei dovuto svolgere le funzioni dei medici assenti- Jervis mi telefonò
dicendomi che dovevo fare l’elettroshock a una sua paziente. Io risposi
che l’elettroshock non lo facevo; egli disse che l’avrebbe eseguito di
persona e mi invitò ad andare a vedere; così, perché non pensasse che
io non facevo l’elettroshock per l’impressione, anziché per principio,
cioè perché l’elettroshock fa male, fui costretto ad andare a vedere.
Vidi fare l’elettroshock a una suora di ventotto anni che era stata, dal
convento in cui viveva, internata dalle consorelle perché ad un certo
punto aveva cominciato a dire che lei non voleva più saperne di essere
sposa di Gesù, ma voleva degli sposi sul serio. Jervis allora le faceva
l’elettroshock; la situazione si commenta da sola! Io presi i reparti di
donne che erano di Jervis e vi trovai che l’elettroshock era molto
usato, mentre nei reparti degli uomini esso era stato già eliminato.
Questa è una testimonianza di un’altra situazione complicata,
contraddittoria.
Inoltre i medici sostenevano che le persone dovevano
essere liberate dal manicomio, ma non tutte potevano uscire. Le uscite
erano consentite solo se controllate, mentre con me non erano più
controllate perché ritenevo che ogni persona avesse il diritto di uscire
quando voleva e secondo le sue intenzioni. Operai così due cambiamenti:
tolsi l’elettroshock e lasciai le persone libere. Inoltre cominciai a
ridurre gli psicofarmaci, per poterli togliere definitivamente. Per
questo motivo ebbi una discussione con Pirella dal momento che, nel
reparto donne, c’era una persona anziana che piangeva continuamente ed
egli voleva provvedere a questa situazione ricorrendo all’elettroshock.
Naturalmente io iniziai a parlare con questa donna e scoprii che la sua
condizione e il suo stato d’animo erano in relazione con alcuni problemi
concreti della sua vita.
Devo dire che io introdussi
un’intensificazione dei rapporti individuali; ero abituato ad avere
rapporti molto intensi con le singole persone, anche se questo,
comportava un lavoro notevole, poiché le persone erano tante. Lo stato
di malinconia di questa donna era in parte legato alla sua situazione
psicologica e sociale, in parte dal fatto che, come scoprii da alcuni
esami, aveva una forma di arteriosclerosi celebrale, cioè un difetto
della circolazione sanguigna dovuto all’irrigidimento delle arterie;
dunque, il suo stato emotivo dipendeva anche da questa malattia.
Pirella, vedendo che la condizione di questa donna non migliorava, disse
che bisognava farle l’elettroshock. Io, come responsabile del reparto
donne, dissi che non volevo, ma Pirella mi rispose che, in quanto
direttore, avrebbe deciso egli stesso. La mattina seguente, come di
consuetudine, c’era la riunione di medici e infermieri; io, dal mio
canto, avevo passato tutta la notte a pensare a come avrei potuto
oppormi concretamente all’elettroshock. Durante la riunione Pirella
disse che, visto che le condizioni di quella donna erano statiche,
avrebbe proceduto con l’elettroshock prendendosi lui le responsabilità
come direttore. Quando ebbe finito il suo discorso, io chiesi la parola e
intervenni dicendo che, dal momento che questa persona aveva una forma
di arteriosclerosi cerebrale grave, con l’elettroshock avrebbe potuto
per prima cosa morire, oppure diventare cieca o sorda, oppure rimanere
paralizzata ed infine poteva anche non succederle niente.
Dopo aver
detto tutte queste cose Pirella non si sentì più di intervenire sulla
donna e io, in questo modo, riuscii ad evitarle l’elettroshock. Mi
ricordo, poi, di una ragazza che da mesi era in uno stato di
inquietudine, notte e giorno. Era imbottita di psicofarmaci; parlando
con lei e con il suo consenso, glieli tolsi tutti, di colpo. La notte la
ragazza dormì e il mattino era tranquilla. Pirella mi disse che questo
era un effetto paradosso; io replicai che non era un effetto paradosso,
ma un effetto logico, perché i farmaci a lungo andare intossicano e
creano malessere e inquietudine. La persona stava meglio perché non era
più intossicata: si tratta di un effetto logico, non paradosso. Questi
sono alcuni episodi che rendono l’idea che l’intenzione di Basaglia di
superare il manicomio secondo me era limitata dal fatto di non avere
portato avanti una critica profonda al pensiero psichiatrico.
Naturalmente, in seguito, me ne dovetti andare via da Gorizia, ma
Jervis, nonostante le nostre contraddizioni, m’invitò a lavorare con
lui al Centro di igiene mentale di Reggio Emilia, che era stato
istituito nel 1970 allo scopo di evitare i ricoveri in manicomio. Questo
perché tutti, da Basaglia a Jervis, riconoscevano il mio modo di
entrare in rapporto diretto con le persone, non solo perché ci parlavo,
ma perché, secondo me, un rapporto può essere autentico solo quando si
pensa che l’altra persona è come noi e che non è incapace di ragionare e
di discutere. Io sono convinto che le persone che sono nella sfera
psichiatrica sono persone come noi che hanno dei problemi forse più
difficili da affrontare, ma con i quali bisogna comunicare e non porsi
in maniera paternalistica. Per esempio, se una persona viene da me e
dice di essere perseguitata dai servizi segreti, io mi metto a
discuterci perché mi sta comunicando una sua idea.
Questa idea può
essere giusta o sbagliata, ma il fatto di sbagliare non significa essere
malati di mente poiché sbagliamo tutti in continuazione. Oppure se
qualcuno viene da me e dice di credere nella Trinità, io lo rispetto,
anche se la sua idea non è fondata certamente sulla logica perché quello
di tre persone distinte, riunite un unico Dio, è un concetto assurdo.
In ogni modo, gli altri medici hanno sempre capito come fossi
interessato a portare avanti rapporti diretti finalizzati al dialogo e
alla comprensione; infatti non ho mai dovuto cercare lavoro, ma sono
stato sempre chiamato da altri. Cotti mi invitò a lavorare a Cividale
del Friuli perché mi conosceva per il lavoro che svolgevo a Firenze;
Basaglia e Tesi mi hanno invitato a Gorizia, Jervis a Reggio Emilia e
Cotti mi invitò di nuovo a Imola.
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