mercoledì 28 ottobre 2015

Chi vuole la libertà vigilata per i matti di Dacia Maraini


Chi vuole la libertà vigilata per i matti

Finisce in tribunale la storia di un malato di mente travolto e ucciso da un’auto: i medici che lo hanno dimesso sono stati accusati d’abbandono d’incapace

DACIA MARAINI
12 aprile 1991
pubblicato su EUROPEO 14/15 - 12 aprile 1991

Un uomo che era stato chiuso in manicomio a 17 anni, giudicato nel lontano 1951 come schizofrenico, oggi, nel 1988, grazie alle cure di medici intelligenti e generosi, si era guadagnato la libertà di uscire ed entrare dall’ospedale in cui viveva. Una mattina quest’uomo, che si chiama Corrado Orsi, decide di andare a fare una passeggiata, come faceva da anni, e mentre cammina (tenendosi diligentemente sul margine destro, come poi è stato testimoniato), viene investito brutalmente da una macchina che lo lascia morto per terra. I vigili riconoscono la colpevolezza dell’autista, le assicurazioni pagano la famiglia del morto.
Sembrerebbe un caso chiarissimo: un incidente come ce ne sono tanti. Un irresponsabile come tanti altri, che considera l’automobile un’estensione della sua volontà di potenza, e quindi corre, si distrae, sbanda e finisce per travolgere un povero passante.
La procura di Bologna invece crede di dover stabilire che ci sono degli altri responsabili: i medici che hanno permesso all’Orsi di uscire dall’ospedale nonostante la sua dichiarata (nel 1951) schizofrenia. E li hanno accusati di “abbandono di incapace”.
I medici incriminati, il dottor Antonucci, medico curante, e il dottore Venturini, coordinatore dei servizi psichiatrici di Imola, dicono che l’uomo stava bene, era in grado di uscire, di camminare, di comprendere cosa facesse e dove andasse. Tanto è vero che da anni percorreva la stessa strada senza mai aver avuto difficoltà. La prova che l’incidente non è stato provocato da una cecità dell’Orsi ce la danno inoltre sia la polizia stradale sia le assicurazioni riconoscendo la colpa dell’automobilista.
Ma il processo si farà lo stesso. Da una parte il perito del tribunale professor Balloni, docente di criminologia dell’università di Bologna, il quale sostiene, d’accordo con altri colleghi della vecchia scuola, che la schizofrenia è irreversibile. Per cui, “un uomo definito così nel 1951, nell’88 non è sicuramente in grado di camminare per la strada da solo”. Dall’altra parte c’è il dottor Antonucci, il quale sostiene “non solo non ho abbandonato l’uomo, ma gli ho dato il permesso di uscire. Il paziente davvero abbandonato è quello rinchiuso”.
Il punto è proprio questo: può la schizofrenia essere in qualche modo diminuita ridando al paziente la sua libertà di giudizio e di azione?
Molti professori della scuola psichiatrica tradizionale sostengono decisamente di no. Il malato, per loro, è destinato a peggiorare e quindi va tenuto chiuso e curato con forti dosi di calmanti e di elettroshock.
Altri, coloro che si riconoscono nella nuova psichiatria, coloro che sono stati vicini a Basaglia sostengono invece che la schizofrenia non è affatto incurabile. D’altronde, se no, perché si curerebbero i malati, solo per torturarli o per renderli innocui?
Il dottor Antonucci ha chiesto a questo proposito una “memoria tecnica” al grande Thomas Szasz della università americana di Syracuse, famoso in tutto il mondo per la sua critica al concetto di malattia mentale. Szasz ha risposto con una bella lettera in cui dichiara che una persona classificata schizofrenica e con qualunque etichetta psichiatrica ha la capacità e il diritto di vivere fuori dall’istituzione, anche dopo un lungo e arbitrario internamento.
Sono chiaramente due modi diversi di affrontare il concetto di malattia e di responsabilità. Lo stesso avveniva una volta con le persone considerate “incapaci” di pensare a sé. Fra queste cerano anche le donne, per secoli ritenute delle minorenni a vita, bisognose di tutela legale e familiare.
Paradossalmente proprio il dottor Antonucci, che da anni si dedica alle persone che vengono rinchiuse come “malati di mente”, oggi viene accusato di “abbandono di incapace”. Proprio lui che, come tutti sanno a Imola, è uno dei pochi a fare il tempo pieno in ospedale, uno che ha scelto di rimanere accanto ai ricoverati notte e giorno, uno che ha compiuto dei veri e propri “miracoli” di recupero riportando alla vita sociale dei degenti considerati “irrecuperabili”, puntando solo su un lavoro di paziente e amorosa partecipazione. Io stessa ho avuto modo di conoscerlo e di conoscere i suoi pazienti riconquistati alla vita familiare dopo anni di una segregazione che li aveva resi di fatto “pericolosi” a sé e agli altri.
Ma è proprio questo paradosso che fa da spia a una volontà punitiva le cui ragioni stanno al di là di questo caso e rivelano l’affermazione di principi politici regressivi e autoritari che in questo momento sentiamo incombenti nella vita sociale del paese.

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