venerdì 14 agosto 2015

Conversazione con Giorgio Antonucci - Critical Book














“Penso che spesso, oltre alla pericolosità del giudizio psichiatrico, la cosa più pericolosa sia la resa che una persona fa alla propria convinzione di essere malata”


















Intervista a cura di Erveda Sansi

“Giorgio Antonucci non ha niente del medico tradizionale, indaffarato, autoritario, privo di abbandoni che siamo abituati a conoscere. La sua faccia triste esprime una dolcezza morbida, acuta, quasi dolorosa. I suoi occhi sono pieni di una timida assorta attenzione”, è così che Dacia Maraini ritrae Giorgio Antonucci in un articolo su La Stampa, e del reparto aperto autogestito di Imola fa la seguente descrizione: “Una volta aperta la porta del reparto mi trovo in una sala lunga e stretta affollata di gente. In fondo, sotto un affresco di mari ondosi su cui navigano barche dalle vele rosse, ci sono i ragazzi dell’Aquila venuti qui a suonare.

Fra l’orchestra e la porta tante sedie con tanti ricoverati, donne e uomini. […] La musica di Mozart, con la sua armonia esplosiva dilata gli spazi, entra in queste facce contratte segnate dalle torture trasformando la bruttezza in bellezza, si fa liquido delicato piacere. I ragazzi dell’orchestra con le loro barbe, i loro blue jeans, i loro capelli lunghi suonano, impetuosamente brandendo i corni, i violoncelli, gli oboi. Alcuni dei degenti si mettono a ballare. Altri ascoltano a bocca aperta, facendosi cullare dalla meraviglia di quelle note. L’atmosfera rispetto ai reparti chiusi è diversa, c’è confusione, vocìo, disordine, colori. […] Le pareti sono coperte di stampe colorate, disegni, fiori, stelle. Una ragazza in vestaglia va e viene portando dei dolci”.
Artisti come Luca Bramanti e Piero Colacicchi hanno collaborato alle iniziative culturali e dipinto gli affreschi del reparto. Dacia Maraini chiede perché, visto il buon risultato ottenuto, non si fa lo stesso negli altri reparti: “Prima di tutto perché è molto faticoso – risponde Antonucci con la sua voce quieta, – mi ci sono voluti cinque anni di lavoro durissimo per ridare fiducia a queste donne; cinque anni di conversazioni, di presenza anche notturna, di rapporto a tu per tu. Però non si tratta di una tecnica, ma di un diverso modo di concepire i rapporti umani”. “In che consiste questo metodo nuovo per quanto riguarda i cosiddetti malati psichici?”, domanda la scrittrice. “Per me significa che i malati mentali non esistono e la psichiatria va completamente eliminata. I medici dovrebbero essere presenti solo per curare le malattie del corpo. Storicamente da noi la psichiatria è nata nel momento in cui la società si organizzava in modo sempre più rigido, e aveva bisogno di grandi spostamenti di mano d’opera. Durante queste deportazioni fatte in condizioni difficili, ostili molte persone rimanevano disturbate, confuse, non producevano più bene e quindi c’era l’esigenza di metterle da parte. Rosa Luxemburg dice: "Con l’accumulazione del capitale e lo spostamento delle persone si allargano i ghetti del proletariato". Nel ‘600 in Francia quando si forma la monarchia assoluta (lo Stato), i manicomi venivano chiamati "luoghi di ospizio per persone povere che disturbano la comunità". La psichiatria è venuta dopo come copertura ideologica. Nel trattato di psichiatria di Bleuler che è l’inventore del termine schizofrenia, è detto che schizofrenici sono coloro che soffrono di depressioni, che si immobilizzano o girano intorno ossessivamente per il cortile. Ma che altro potevano fare così reclusi? Infine Bleuler conclude senza volere, comicamente: "Sono così strani che alle volte assomigliano a noi"”. “Insomma tu dici che la malattia mentale non esiste ma esistono dei conflitti sociali di fronte a cui alcune persone più fragili o più oppresse soccombono. […] Qual è secondo te l’alternativa?”.
“L’alternativa sta nell’identificare i diritti individuali delle persone nella situazione sociale e storica in cui vivono e nell’ottenere il consenso e la partecipazione attiva della comunità attraverso i comitati di quartiere, i consigli di fabbrica, le scuole”. “Insomma sei d’accordo con Pirella quando dice che bisogna adottare iniziative precise per la formazione professionale dei ricoverati, occorre garantire loro il diritto di avere una casa?” “Certo sono d’accordo. Però mi sembra che il discorso di Pirella non è del tutto chiaro. Mi sembra di capire che lui comunque vuole mantenere un certo tipo di assistenza psichiatrica. Mentre io sono per abolirla del tutto”.[1]
Gli scritti, le interviste e gli interventi pubblici di Giorgio Antonucci hanno tutti la peculiarità di essere di facile comprensione, come lui stesso sottolinea: “Ho pensato così che già la scelta di un linguaggio comprensibile possa servire a profanare quello scrigno di parole difficili, inseparabili dai detentori di discipline specialistiche o di pensieri esoterici. Il discorso sul metodo di Renato Cartesio e la definizione delle idee chiare e distinte avrebbero dovuto insegnarci una volta per tutte qual è il modo di procedere e di scrivere di chi è occupato da vero interesse scientifico. Soprattutto se si tratta di psichiatria il linguaggio esclusivo da essa prodotto è un esempio chiaro di come la realtà dei fatti possa essere modificata già con l’uso di una parola invece che dell’altra. Le parole complicate degli psichiatri come quelle dei giuristi, e ancor più di quelle dei politici e dei medici in genere, hanno la funzione di non fare entrare facilmente gli altri nel loro mondo, dato che ormai è risaputo che buona parte del potere passa per l’accesso alle parole ed al loro significato”[2]
Giorgio Antonucci è medico e si forma come psicanalista. Già durante gli anni dell’università era entrato in contrasto con l’establishment criticando l’impostazione della medicina ufficiale. Negli anni dal 1965 al 1967 lavora come medico a Firenze, impegnato a sottrarre le persone ai ricoveri coatti e a qualunque trattamento coercitivo. “Sembra che fosse la prima volta che si vedeva una pratica di questo tipo, almeno in modo così sistematico”, ricorda Antonucci, “evitare i ricoveri richiedeva molto lavoro e anche molti rischi”. Partecipa all’istituzione del primo laboratorio aperto per degenti, all’interno dell’ospedale psichiatrico San Salvi di Firenze. Nel 1968 collabora con Edelweiss Cotti nel primo reparto aperto di ospedale civile, costruito a Cividale del Friuli, in risposta agli internamenti in manicomio.
Nel 1969 lavora presso l’ospedale psichiatrico di Gorizia diretto da Franco Basaglia. Dal 1970 al 1972 svolge la sua opera nei centri di igiene mentale (CIM), dirigendo i servizi di Castelnuovo nei Monti, sugli Appennini reggiani. Organizza incontri ed assemblee, invitando i cittadini a discutere dei problemi economici, sociali, politici e culturali riguardanti la psichiatria, che avrà come conseguenza la mobilitazione della cittadinanza contro il manicomio e i ricoveri psichiatrici. Dal 1973 al 1996 lavora successivamente in due manicomi a Imola. Prima all’Osservanza, poi dirige due reparti del Lolli, uno di persone anziane, di tipo geriatrico e l’altro autogestito, e smantella gli strumenti di contenzione, controllo, segregazione e isolamento fisici, farmacologici, sociali, architettonici o altro.
Prosegue la sua attività culturale e scientifica, partecipando a convegni e manifestazioni pubbliche, interviste, interventi radiofonici e televisivi, attività di rete a difesa dei diritti dei cittadini sottoposti a provvedimenti psichiatrici ed è, insieme ad Alessio Coppola, uno dei fondatori del Telefono Viola. Con Thomas Szasz condivide la messa in discussione radicale dell’istituzione psichiatrica e del concetto di malattia mentale. Nel 2005 ha ricevuto, a Los Angeles, il Thomas Szasz Award e, contemporaneamente, un riconoscimento dell’assemblea legislativa della California, per la difesa dei diritti umani attraverso il l’impegno a favore dei pazienti psichiatrici. Nell’attestato di riconoscimento si legge: “ Thank you for being a champion of human rights”.
“La verità di Antonucci - scrive Giuseppe Gozzini nell’introduzione a Il pregiudizio psichiatrico - e tutto il suo pensiero sono basati sull’osservazione della realtà. Senza barare. Non è un visionario o un ingenuo: sa che la posta in gioco, per superare l’oppressione psichiatrica, è una società che abbia come fondamento la rinuncia a unificare pensieri e comportamenti degli individui per ridurli a modelli precostituiti, la rinuncia a regolare la vita sociale tracciando non solo i confini (legittimi e necessari) tra permesso e vietato, ma i confini tra normale e patologico, sano di mente e pazzo”[3]
Tra le sue numerose pubblicazioni sono da segnalare i volumi: I pregiudizi e la conoscenza. Critica alla psichiatria (Cooperativa Apache, 1986 - ora disponibile in versione e-book gratuito), Il pregiudizio psichiatrico (Elèuthera, 1989 e 1998), tre contributi agli Annali 1989, 1990 e 1991 dell’Enciclopedia Atlantica (European Book, Milano), La nave del paradiso (Spirali, 1990); “Aggressività. Composizione in tre tempi”, in Uomini e lupi (Elèuthera, 1990); Critica al giudizio psichiatrico, (Sensibili alle foglie, 1993 e 2005); Contrappunti (Sensibili alle foglie, 1994, anche e-book); “Il giudice e lo psichiatra”, in Delitto e castigo (Elèuthera, 1994); Pensieri sul suicidio (Elèuthera, 1996); Il Telefono Viola, con Alessio Coppola (Elèuthera, 1995); Le lezioni della mia vita (Spirali, 1999), Diario dal manicomio. Ricordi e pensieri (Spirali, 2006), “Intervento psichiatrico e TSO” in La libertà sospesa (Fefé 2012), “Intervista a Giorgio Antonucci” in Della meditazione (Aracne 2013). Svend Bach, danese, docente di letteratura italiana all’Università di Aarhus, gli ha dedicato un libro: Antipsykiatri eller ikke-psykiatri, (Amalie - Galebevægelsens Forlag, Copenaghen, 1989) e sulla sua esperienza è stato scritto il Dossier Imola e legge 180, Alberto Bonetti, Dacia Maraini, Giuseppe Favati, Gianni Tadolini, (Idea Books, 1979); Dacia Maraini ne parla anche in La grande festa (Rizzoli 2011).
Scritti e poesie di Giorgio Antonucci sono usciti su diverse riviste, fra cui Psicoterapia e scienze umane (“Sono nata sotto un sole nero - Giulia”, aprile-giugno 1974), Ombre rosse (“I miei capelli arruffati”, 18-19, gennaio 1977), Il Ponte, (“Lettera da un istituto psichiatrico”, n. 12, dicembre 1970) e Collettivo R, Senza confine, Tempi supplementari, Frigidaire, Liberamente, La cifra, Il secondo rinascimento, Filiarmonici. Per un approfondimento sono reperibili in rete testi e scritti, videoregistrazioni e registrazioni di interventi radiofonici. Sulla sua pagina facebook si possono trovare quotidianamente sue poesie e considerazioni sull’attualità. Significative sono le seguenti frasi di Eugenia Omodei Zorini[4]:Antonucci rivolge lo stesso rigore critico al pensiero psicoanalitico. Freud ha permesso di superare la dicotomia tra sano e malato, dal momento che ci ha mostrato come la psicodinamica è la stessa in tutti gli individui. Eppure, sia nei testi freudiani che nella vita di Freud, sia nella psicoanalisi dopo di lui che nelle varie forme di psicoterapia, possiamo spesso rintracciare l’uso della conoscenza per stigmatizzare comportamenti, per esercitare il potere in modi mascherati, sottili e violenti. La diagnosi può essere un importante strumento nel nostro lavoro, ma è un giudizio utilizzabile per asservire la scienza a strumento di potere. Il punto di osservazione di Giorgio Antonucci è estremo ed estremamente concreto: l’internamento nei reparti psichiatrici, la camicia di forza fisica o chimica, la cancellazione della dignità umana e del diritto di autodeterminazione. Antonucci ha individuato nel pensiero psichiatrico una forma di violenza estrema, astuta e socialmente squalificante, poiché prende come bersaglio la soggettività; attraverso la definizione di malato di mente non vengono puniti i comportamenti che non si uniformano a regole, ma si colpisce la persona nella sua essenza definendola incapace di intenzione, di discernimento, di volontà”.




Conversazione con Giorgio Antonucci[5]

- In cosa è consistito il tuo lavoro all’interno delle istituzioni e quali sono stati i cambiamenti che vi hai apportato?

- Ho lavorato per ventitre anni successivamente in due manicomi, dall’agosto 1973 al settembre 1996. Uno era il manicomio della Romagna e l’altro era il manicomio della provincia di Bologna, perché Bologna aveva due manicomi, uno per il centro, il Roncati e uno per la provincia, il Lolli, che era a Imola. Premetto che mi aveva invitato Edelweiss Cotti, con cui avevo lavorato in precedenza. E’ stato il primo in Italia a negare il significato della malattia mentale, diceva che la malattia mentale è un concetto sbagliato. Sono stato invitato lì per liberare le persone.
Liberarle è il termine giusto, cioè toglierle dalla prigionia, prima dalle camicie di forza, poi aprendo le celle, buttando giù i muri, insomma liberando queste persone. Liberarle non solo dalla prigionia e dalla sorveglianza, ma anche da tutti i trattamenti, tra i quali c’erano l’elettroshock, l’insulina-coma, gli psicofarmaci, c’erano stati la lobotomia e anche altri trattamenti come far venire le febbri, la cosiddetta malarioterapia e altre cose di questo genere. C’era di tutto.
Ho cominciato nel reparto ritenuto il più difficile, che chiamavano delle agitate; si trattava di persone che erano ritenute più difficili. Ho aperto il reparto e ho liberato le persone che hanno cominciato a uscire, prima nel parco e poi in città. Per quanto riguarda i farmaci, si trattava di liberare le persone dalla prigionia e insieme anche dall’intossicazione da psicofarmaci. Cotti, appena arrivato, tolse l’elettroshock e non si praticava nemmeno l’insulina-coma.
Le persone dovevano riprendere il rapporto con gli altri, perché insieme a tutto il resto c’era l’isolamento e nessuno comunicava più con loro. Riprendere il rapporto con gli altri significa riprendere il dialogo. Essere liberate e riprendere il dialogo. Riaprire il dialogo vuol dire che persone, che per anni non hanno più dialogato con nessuno, ricominciano a trovare qualcuno che le ascolta. Questo è il discorso. Naturalmente si tratta di persone che non hanno il cervello diverso dagli altri, come invece gli psichiatri hanno sempre cercato di dimostrare, facendo da sempre delle ipotesi incontrollabili.
Sono persone come noi, che per circostanze più o meno spiacevoli, casuali o anche programmate, sono state estromesse dal consorzio umano.
Sono persone con cui si deve comunicare.
Comunicare significa la lingua, il linguaggio, la parola, ma anche altri tipi di comunicazione.
Si comunica anche in silenzio. Nel senso che si può stare insieme senza parlare e si comunica. Con i movimenti, gli occhi, con tutto quanto.
La comunicazione deve sostituire tutte le pratiche nocive. Si deve comunicare alla pari con persone che sono come noi, identiche a noi, ognuna con la sua storia, con la sua individualità, che non hanno nessun difetto dal punto di vista del pensiero, perché il loro pensiero non funziona diversamente dal nostro. Nell’istituzione psichiatrica hanno messo anche persone con ogni tipo di problema, che avevano perduto le gambe, o avevano delle mutilazioni, ma che dal punto di vista psicologico sono persone come noi.

- E’ possibile liberarsi dall’intossicazione degli psicofarmaci?

- Le persone che ho trovato lì, oltre a essere legate nel letto e chiuse in una stanza, erano anche sottoposte a quattro o cinque tipi di psicofarmaci, neurolettici, ansiolitici o tutt’ e due insieme, o anche antiepilettici quando non c’era neanche l’epilessia, e così via.
Il mio scopo era, oltre a quello di liberarle da tutti i vincoli fisici e di restituire loro la comunicazione con gli altri, quello di togliere gli psicofarmaci. Ho dovuto toglierli progressivamente, tenendo conto del fatto che con una persona che è intossicata, bisogna procedere stando attenti agli effetti secondari, cioè agli effetti dell’assuefazione, come succede quando uno deve smettere una droga. Gli effetti dell’assuefazione sono fisici, nel senso che l’organismo è abituato a prendere certe sostanze tossiche, e anche psicologici, perché se si toglie la pillola per dormire a una persona abituata a prenderla, pensa che non può dormire se non con la pillola. Ho cominciato a togliere progressivamente i farmaci, discutendone e cercando di capire quello che succedeva con le persone stesse. Questo a volte mi ha richiesto tempi lunghi, perché c’erano per esempio delle persone che volevano continuare ad assumerli, perché erano abituate, altrimenti veniva loro l’angoscia.
All’inizio gli informatori farmaceutici venivano anche da me, così come andavano in tutti i reparti e dicevano: “Questo serve per l’ansia e quest’altro per la depressione”. Io discutevo con loro ma dicevo che mi stavano portando della roba che non mi serviva, che non adoperavo, perché come medico avevo il dovere, prima di tutto, di non danneggiare le persone.
Sono venuti da me i primi due o tre mesi, poi, nei ventisei anni durante i quali sono stato in quei due manicomi, non si sono più visti. Andavano dagli altri medici, ma da me non venivano più.

- E’ stata una scelta motivata dal fatto che gli psicofarmaci hanno molti effetti collaterali?

- Se io prendo un antibiotico per la tubercolosi, per esempio la streptomicina che cura la tubercolosi, parlo di effetti primari, cioè quell’antibiotico è dannoso per il germe, per il bacillo, per cui io guarisco dalla tubercolosi, e parlo di effetti secondari, perché la streptomicina potrebbe causare dei danni alle orecchie. Parlo di effetti primari come di quelli terapeutici e di quelli secondari, come di quelli indesiderati. Prima che una persona muoia di tubercolosi, conviene, se è d’accordo naturalmente, che rischi gli effetti secondari, perché l’effetto primario è importante.
Ma per gli psicofarmaci non si può parlare di effetti secondari o collaterali, perché sono dannosi e basta, cioè non c’è un effetto positivo. Per quanto riguarda la struttura neurologica, gli psicofarmaci sono dannosi per il cervello, per tutto il sistema nervoso centrale e periferico. Sono di danno alle funzioni cerebrali e perciò al pensiero, alla comunicazione, ai movimenti, per cui vengono le discinesie. Sono di danno all’organismo perché la pelle si sciupa, sono di danno al fegato, ai reni, per cui nel caso degli psicofarmaci bisogna parlare solo di effetti dannosi. Questo è il mio punto di vista, che viene da un lavoro in manicomio, oltre che dal lavoro che ho fatto fuori.
 Ho preso le persone in camicia di forza che non sapevano più vestirsi perché indossavano il camicione e basta, e hanno ripreso a essere libere di comunicare, di vivere, di vestirsi.
Mi ci sono voluti anni per trasformare tutta la struttura. Le persone che volevano tornare a casa potevano farlo se c’era qualcuno ad accoglierle, perché dovevano avere un posto dove andare. Per quelli che potevano andare in appartamento ci sono andati. Invece per quelli che non hanno trovato una collocazione fuori, e che non avevano nessuno, ho trasformato questi locali e aperti completamente. Potevano uscire quando volevano, che significava cambiare tutto. Persone che da venti, trenta, trentacinque anni erano in camicia di forza sono venuti con me al Parlamento Europeo a Strasburgo, a Vienna e dal Papa. Queste persone sono ritornate ad essere in comunicazione con gli altri, questo è il nocciolo del problema.
Ho fatto il quadro generale per dire che la mia esperienza con gli psicofarmaci non è un’esperienza del farmacologo, astratta, ma è un’esperienza concreta, in manicomio, fatta tra persone prigioniere e senza comunicazione con l’esterno, che sono diventate persone che vanno al Parlamento Europeo a discutere dei loro diritti. Siccome poi ci sono quelli che dicono che queste persone non hanno delle capacità, se sono venute al Parlamento Europeo a parlare dei loro diritti, dopo essere stati trent’anni in manicomio, vuol dire che le capacità non solo le avevano, ma le hanno anche conservate nonostante tutti i danni provocati dal manicomio e dagli psicofarmaci.
Per me il discorso è molto chiaro. Szasz dice che la malattia mentale è un mito, secondo me non è neanche un mito, è una menzogna. La psicologia e la psichiatria sono un insieme di chiacchiere a vuoto, che non hanno nessun rapporto con le persone per quello che sono.
Non serve a niente leggere tutte le falsità che scrive Freud. Se uno vuole tirare fuori una persona dal manicomio, bisogna che comunichi su cose reali, pratiche. Infatti la psicologia è nata dalla psicoanalisi, ma non serve a niente. Forse può servire alle persone che stanno bene, per discutere dei loro problemi, ma penso che non serva nemmeno a questo.
Comunque il problema della psicologia è la possibilità di comunicare, anche con le persone più difficili. Comunicare è difficile sempre, anche perché noi in generale, quando comunichiamo fuori dalle istituzioni, crediamo di comunicare, ma spesso non facciamo altro che scambiarci delle ombre. Comunicare sul serio è difficile. Il problema è che siccome il nostro cervello ha un’infinità di possibilità di invenzione, ci sono alcuni che hanno un modo di comunicare che non è quello di tutti i giorni.
Una persona invece di dire che si sente minacciata, può dire che si sente inseguita dai servizi segreti, questa non è altro che una variante della comunicazione. E’ chiaro che uno può dire una cosa in modo diretto oppure in modo simbolico. Poi si dice: ma che cosa crede! Ma naturalmente si possono credere tante cose. C’è chi crede nella trinità che è un fatto ufficiale, c’è chi crede nelle streghe che non è più un fatto ufficiale. Ognuno ha il diritto di esprimere le proprie credenze come vuole. Ci sono tanti modi di pensare, di credere, di esprimersi. Questo non significa che il cervello di uno è sano e il cervello dell’altro non è sano. Ma significa che i cervelli si esprimono in tanti modi differenti. Questo è il nocciolo della discussione, secondo me.
E’ chiaro che, se si parte da un concetto pseudoscientifico e ipotetico di malattia, ci sono delle medicine per curarla. La sifilide è una malattia che si cura con certe medicine. Ma i problemi esistenziali non sono malattie e non hanno bisogno di cure. Per cui gli psicofarmaci, oltre a essere dannosi a tutti gli effetti e a non avere alcun effetto positivo, sono impropri perché i problemi esistenziali vanno discussi. In questo sarei d’accordo con Freud che diceva che aveva smesso di fare il medico per i problemi dei suoi pazienti e aveva cominciato a fare il biografo. Freud aveva intuito che i problemi esistenziali non sono oggetto di medicina, ma sono un’altra cosa. Non è stato abbastanza coerente ad andare fino in fondo al problema, però questa cosa l’aveva capita. Ripeto, gli psicofarmaci sono dannosi e non servono a nulla.

- Potrebbe trattarsi di effetto placebo quello che i medici chiamano effetto positivo e che alcuni pazienti dicono di avvertire come effetto positivo?

- No, si tratta di un effetto reale, questo lo dico anche a proposito dell’elettroshock. Se una persona ha l’angoscia e prende una droga, può darsi che abbia l’impressione, lì per lì, che questa angoscia diminuisca.
Però prima di tutto l’effetto passa e quando passa, l’angoscia è quella di prima, perché l’angoscia ha un significato reale che bisogna discutere e si deve risolvere il problema che ci provoca l’angoscia.

- Quindi l’effetto non è placebo, ma è quello di bloccare delle funzioni intellettive? Ti taglia fuori le funzioni intellettive, insieme all’angoscia?

- Ti taglia fuori la possibilità di risolvere i tuoi problemi e di superare le tue angosce. Oltre al fatto di definirti come persona che ha delle angosce, delle contraddizioni, delle paure, una persona che ha un difetto al cervello, ti mettono anche in una situazione di inferiorità. Allora tu pensi che i tuoi problemi non dipendono dalla tua vita interiore e dalla tua vita pratica, ma dipendono da un difetto che hai e non ne esci più fuori. La psichiatria t’incastra in una situazione da cui non puoi più uscire. Cerchi di guarire da una malattia che non c’è, invece che risolvere dei problemi che ci sono.

- Ci si convince di essere ammalati, di avere una malattia mentale.

- Certamente. Infatti, a molte delle persone in manicomio mi riusciva difficile comunicare che non erano persone malate. Erano sempre state definite così e loro stesse pensavano di esserlo, anche perché c’è la dipendenza dal giudizio del medico. Se tu vieni da me perché sei disperata, o perché hai paura di uscire di casa, i casi sono due: o ti aiuto a capire quali sono queste paure, come si fa a superarle o ti dico che sei nevrotico e ti metto in condizione di pensare che la tua testa funziona male, che queste paure sono il cattivo funzionamento della tua testa, così ti senti anche inferiore agli altri e hai più paura di prima. E’ una questione anche teorica, ma soprattutto di metodo.
Dire a una persona che ha delle paure - posso avere delle paure e ci fantastico sopra, posso avere paura che ci sia qualcuno in giro che mi uccide anche se non c’è, perché la mia immaginazione da forma a questa mia paura - che questo è un difetto che si cura con le medicine, significa mettere la persona in una posizione falsa da cui non esce più. La psichiatria con il suo concetto di malattia mentale la incastra, anche prima di riconoscerla, la imprigiona anche senza metterla in manicomio.
Per cui il problema, e l’ho sempre detto anche ai basagliani, non è il manicomio. Certo, ci ho lavorato ventitre anni, lo so che il manicomio è un problema. Ma il manicomio è una conseguenza di un’impostazione sbagliata.

- Accanto al giudizio dei medici, c’è anche quello delle persone vicine, degli amici, dei parenti. Se ad esempio dico qualcosa che per loro è strano, non rispondono neanche perché lo trovano inutile, oppure hanno paura e così mi rinchiudo sempre più in me stessa, perché a mia volta ho paura e comincio a sentirmi strana, si rinforza in me l’idea di essere diversa.

- Per forza, è quello che ti dicono.

- Percepisco il giudizio degli altri. Non mi dicono mai direttamente: “tu sei diversa”, ma mi fanno sentire il giudizio.
- Perché ti trattano in un certo modo.
- A ciò si aggiunge l’autogiudizio.
- Si, un autogiudizio che deriva dal giudizio degli altri. Se tu accetti il giudizio degli altri, poi il giudizio di te stessa è un giudizio che ti mette in una condizione di inferiorità.
- Mi posso sentire in dubbio. Quando ci si sente un po’ più fragili cade la sicurezza e magari si pensa di non valere come gli altri, di non avere capacità intellettuali pari agli altri.
- Dici, dalla parte di chi è stato sottoposto a questo giudizio, le cose che dico io. Ora mi sto occupando di un filosofo. E’ un filosofo sul serio, sta scrivendo il V° volume sulla logica di Aristotele. Ha scoperto che ci sono degli aspetti della logica di Aristotele, che dagli studiosi moderni non erano stati valutati. Ha pubblicato cinque libri con l’accademia La Colombaria di Firenze, un’antica accademia che risale al Rinascimento. Sta pubblicando altri volumi, è stimato da Umberto Eco e da Giovanni Semerano. Semerano, che ha scoperto il linguaggio degli etruschi e a cui avrebbero dovuto conferire il premio Nobel, è suo amico.
E’ un filosofo, ma viene da me perché dubita di se stesso e mi dice: “Mi distruggeranno la memoria”, oppure: “mi impediranno di pensare”, perché gli hanno detto, appunto, che non era in grado di pensare, e nonostante scriva libri che sono riconosciuti a livello scientifico dalle accademie e da personaggi di cultura, dubita di se stesso. Questo dubbio è difficile da far sparire. Infatti, nel momento in cui lo psichiatra fa la diagnosi, mette la persona in condizione di inferiorità.
Questo deriva anche dal modo di pensare comune, che diventa sempre più terribile, perché ora naturalmente per essere giudicati malati di mente non ci vuole niente. Non c’è bisogno di essere originali o strani. Sono malati di mente i ragazzi che sono disordinati o vivaci o ribelli a scuola. Sono malati di mente le persone anziane che qualche volta dubitano di se stesse, o hanno delle malinconie. Sono malati di mente quelli che giocano d’azzardo. Gli americani inventano sempre nuove malattie di mente, che diventa un concetto sempre più universale. Ora non c’è più come in Dostoevskij l’omicida Raskolnikov, ma lo psicopatico, che non vuol dire niente perché ci sono persone che uccidono, fanno parte del genere umano e sono persone che hanno il cervello come gli altri.
 C’è anche un’ipocrisia, che quelli che sono sani di mente sarebbero tutti buoni. La psichiatria sta mettendo le mani dappertutto, in modo tale che nessuno di noi può essere sicuro di sfuggire al giudizio degli psichiatri. E’ una cosa antica e ora si sta diffondendo sempre di più. Le persone notevoli nel campo dell’arte, sono considerate malati di mente. Non solo per Lombroso, ma anche per uno psichiatra francese che si chiama Brenot e che recentemente ha scritto un libro, che in italiano è uscito sotto il titolo di Geni da legare, in cui dice che tutti gli artisti, Leonardo, Michelangelo, Mozart, Haydn sono malati di mente. Questi psichiatri stanno trasformando il mondo e l’umanità in oggetto delle loro attenzioni. Dobbiamo evitare questo disastro culturale, conseguenza del fatto che qualunque cosa buona o cattiva si faccia, non viene più giudicata da un punto di vista sociale o etico, ma dal punto di vista psicologico, e questo è falso.
Inoltre, cosa vuol dire normale in senso psicologico? Ancora in senso giuridico, dove ci sono delle leggi scritte, allora c’è la norma che è stabilita dalla legge. Ma a livello psicologico non esiste. Chi è che ha il diritto di dire quello che è normale? Chi ha il diritto di dire che Beethoven non è normale? E’ chiaro che Beethoven e Mozart avevano delle qualità che altri non avevano. Ma gli psichiatri si permettono di sentenziare su tutti, quello che vogliono loro. Queste sentenze sono naturalmente sempre arbitrarie.
Un esempio pratico: nel procedimento giuridico per reati piccoli o grandi, in generale succede che il Pubblico Ministero, che vuole che la persona che ha commesso il reato venga condannata, sostiene con i suoi periti che l’imputato è sano di mente. Invece l’avvocato difensore, a volte, credendo di salvarlo, sostiene che è incapace di intendere e volere, o che è malato di mente, per evitargli l’ergastolo e magari ottiene che lo mandino in manicomio giudiziario dove dovrà stare meno di quello che starebbe in carcere.
Ma se nello stesso processo e per la stessa persona, si può sostenere, da una parte e dall’altra, che la stessa persona è sana di mente o malata di mente, questo dimostra che questo giudizio è puramente arbitrario, per cui non ha niente di scientifico, perché cosa significa scientifico? In astronomia non posso dire che la luna è una stella, perché esistono delle caratteristiche precise, secondo le quali la luna è un satellite che gira intorno alla terra e la stella ha altre caratteristiche. Ma in psichiatria si può dare alla stessa persona il giudizio di sano di mente o malato di mente, nello stesso tempo e per gli stessi motivi. Si tratta quindi di un giudizio assolutamente arbitrario. I giudizi degli psichiatri sono arbitrari, quello che fanno è dannoso. Perciò dico che il problema della nostra cultura è liberarsi dagli psichiatri. Anche se è una cosa enormemente difficile. Però non c’è altro da fare.
- A volte mi capita di sentire persone che dicono che al limite si può dire che la malattia mentale non esiste, ma che esiste la pazzia.
- Cosa vuol dire? E’ già un passo avanti. Nel senso che non esiste una persona che è psicologicamente o biologicamente inferiore agli altri, da ammalato di mente, ma esiste la pazzia. Ma cos’è la pazzia? Pascal dice che gli uomini sono così pazzi, che se uno non lo fosse risulterebbe più pazzo degli altri. Questa è una risposta, per quanto riguarda il significato di saggezza e follia. Dante, quando dice follia intende dire “fare delle cose che ti mandano in perdizione”. Ma non intende dire che uno ragiona male, intende dire che la follia è, per esempio, il folle volo di Ulisse, che va al di là delle colonne d’Ercole perché supera dei limiti che non si possono superare, o che si crede non si possano superare. Passando da un filosofo all’altro, saggezza è quello che si ritiene il pensiero giusto, follia sarebbe il pensiero che non è giusto. In questo caso è un pensiero soggettivo, perché per un filosofo è giusta una cosa e per un altro filosofo è giusta un’altra. Non ne vale la pena che si diano dei pazzi uno con l’altro.
- Foucault diceva, grosso modo, che nel ‘600 è stata istituzionalizzata la ragione, nel senso che prima esisteva sia la ragione che la sragione e da quel momento in poi la sragione non ha più avuto il permesso di esistere, nel senso che bisognava estirparla.
- Però bisogna aggiungere anche, che la ragione non è un concetto assoluto. Se io dico, questo è ragionevole, dovrei sempre aggiungere, dal mio punto di vista. Perché per un asceta è più ragionevole rinunciare ai piaceri del mondo, per Don Giovanni non lo è. Si parte da punti di vista diversi. Perfino nel mondo scientifico la ragione è discutibile, nel senso che nelle varie epoche ci sono stati diversi modi di vedere il mondo, che si chiamano appunto più razionali, proprio perché appartenenti a quella determinata epoca. C’è stato un periodo in cui l’alchimia era il punto di riferimento per una serie di esperienze e un altro in cui l’astronomia era quella di Tolomeo. E serviva, perché le navi navigavano in rapporto a certi concetti di Tolomeo. Poi con Copernico sono cambiate le cose e ora sono cambiate ancora.
Bisogna vedere le cose dal punto di vista dei cambiamenti continui. Foucault dice che con la nascita della borghesia, o con il consolidarsi della borghesia, certe cose sono definite razionali, altre no. Di conseguenza le istituzioni decidono quello che è razionale e quello che non lo è. Le istituzioni hanno i loro principi, ma uno può avere principi diversi da quelle istituzioni. Tanto che poi si vogliono sostituire quelle istituzioni con le rivoluzioni o addirittura farle sparire per costruire mondi diversi.
Gli psichiatri fanno due errori, quando considerano la ragione come un assoluto e il resto come follia, e quando aggiungono che quelli che corrispondono agli schemi della ragione sono sani e che gli altri avrebbero qualche difetto nel cervello mai dimostrato. Fanno questi errori, perché partono dal concetto che ci sia una ragione come punto di riferimento unico e questo non è vero. Basta fare la storia della filosofia per rendersene conto. C’è la ragione di Aristotele, c’è quella di Platone, di Socrate, di Kant, di Pascal, di Husserl, di Heidegger, di Jean-Paul Sartre. Ci sono tanti punti di vista, i quali sono però comunicabili.
 Semmai quello che resta di sostanziale nella ragione, è la capacità di comunicare con chi ha idee diverse. Non è più uno schema assoluto che opprime gli altri, ma la disponibilità a comunicare con gli altri, specialmente quando gli altri hanno punti di vista molto lontani dai nostri. Questo è un problema attuale, non solo tra le persone che si sono adeguate alle convenzioni e quelle che non si sono adeguate, ma anche tra le persone di una cultura e quelle di un’altra. Gli immigrati che vengono da tanti altri mondi hanno modi di vedere diversi. Non c’è la ragione cristiana e la ragione musulmana, quello che chiamo ragione sarebbe la possibilità di comunicare tra cristiani, musulmani, buddisti e altri, senza distruggersi a vicenda, per cui senza i manicomi e senza le guerre.
- A volte anche chi critica la psichiatria si contraddice e usa la terminologia psichiatrica, parlando ad esempio di “crisi di follia dell’utente”, che di conseguenza, dicono, “deve rimanere in una struttura residenziale”.
- E’ difficile liberarsi da questo pregiudizio, perché anche quelli che fanno delle cose utili poi finiscono per ricadere in questa trappola, in cui non bisogna cadere. Intanto, se le persone stanno lì per un periodo, è perché hanno dei problemi con gli altri e non hanno nessun’altro posto dove andare. Ma poi perché non vanno via? Perché non hanno una casa, non hanno un lavoro. Si tratta quindi di problemi pratici.
- Quindi, non è corretto usare questa terminologia?
- Ma crisi di follia può non voler dire niente. Ognuno di noi può attraversare dei periodi critici, nel senso che non riesce a districarsi nei problemi suoi e con la società e quindi viene giudicato così. E’ semplicemente il fatto che non è facile risolvere i propri problemi interiori e combinarli con la realtà. Ma questo è un problema per tutti. Alcuni ce la fanno, altri no. C’è chi non ce la fa, o per problemi strettamente pratici ma anche per problemi interiori, ma non si tratta di follia, si tratta semplicemente di problemi.
- Leggendo le testimonianze di persone che sono state psichiatrizzate, ho notato che alcune di loro usano la terminologia psichiatrica, parlano della loro “malattia mentale”, utilizzando però le virgolette.
- Come il concetto di strega: è un concetto falso, non va messo tra virgolette. Nel ‘600 erano in tre o quattro che dicevano: “Non ci sono le streghe, ci sono delle donne che esercitano la medicina nelle campagne e non sono autorizzate come i medici, ci sono delle donne che hanno un comportamento sessuale che non è approvato in quell’ambiente sociale”. Non si deve mettere tra virgolette il concetto di strega, ma dire che il concetto di strega è sbagliato. Allo stesso modo non si deve mettere tra virgolette il concetto di malattia mentale, ma dire che quello è un concetto sbagliato. Io sono stato definito malato di mente ma questo è un falso.
- Altri però parlano di crisi psicotiche, come se uno potesse esplodere da un momento all’altro.
- Ricadono sempre nello stesso errore. Posso avere un momento della giornata diverso dagli altri, cioè posso avere delle visioni, delle paure immaginarie. Questo fa parte della vita umana. Volevo fare un’osservazione sulla parola psicosi; è un termine inventato in Germania. Il suffisso – osi significa degenerazione. In medicina si dice nefrosi o epatosi, per dire degenerazione delle cellule renali o del fegato. Questo ha un senso, perché ad un certo momento queste cellule sono degenerate. Dire psicosi è come dire che la persona che ha quella crisi, ha una degenerazione delle cellule del cervello e questo è falso. Il concetto di degenerazione è uno dei concetti base della psichiatria, cioè che ci sono delle persone che invece di avere un cervello che funziona come quello degli altri, degenera, come degenera il fegato. E’ chiaro che possono degenerare anche le cellule cerebrali, come nel morbo di Alzheimer per esempio, ma in questo caso si tratta di una malattia neurologica, un’altra cosa quindi.
Invece, affibbiare il termine biologico di degenerazione a dei problemi esistenziali, è un’altra volta il metodo della psichiatria, che è sbagliato. Quando Immanuel Kant diceva che il problema della follia è un problema filosofico, ha perfettamente ragione. Diceva anche che ci sono dei medici della mente, i quali ogni volta che trovano una nuova parola, inventano una nuova malattia. Questo lo diceva Immanuel Kant, non Foucault, e aveva azzeccato completamente il problema.
Si applica il concetto di degenerazione a un comportamento o un pensiero diversi, e c’è anche una base legata ai giudizi sulla vita sessuale. La vita sessuale è stato uno dei cavalli di battaglia della psichiatria. Ai tempi di Freud, una donna della borghesia non doveva provare piacere a fare l’amore, se no aveva un difetto. Si dice degenerato di uno che ha un comportamento sessuale che non ci piace. Si ritorna sempre su questi giudizi.
 Come i razzisti, che dicono che certi gruppi umani sono degenerati rispetto a quelli che rappresentano la normalità. Sono tutti concetti di cui bisogna liberarsi, se no si ricade sempre negli stessi errori. Ci sono anche diversi studi, non di psichiatri ma di storici, che intuiscono il problema. Freud ad esempio si è concentrato sulla vita sessuale, perché la maggior parte delle persone, specialmente le donne, passavano guai con gli psichiatri perché il loro comportamento sessuale era giudicato moralisticamente come negativo, come anche l’omosessualità. Quando sono arrivato ad Imola, venivano ricoverate persone dichiarate omosessuali e facevano loro l’elettroshock.
Psicosi è un termine che indica degenerazione. Uno che ha un comportamento che non piace ai principi della società in cui vive, non è un degenerato, è uno che ha un comportamento diverso e spesso il suo comportamento è anzi un comportamento più corrispondente al suo modo di pensare, e rivendica di essere diverso dagli altri in un mondo in cui queste differenze non vengono riconosciute.
- Se una persona definisce quello che ha provato una psicosi, può anche voler dire che questa persona per qualche motivo non abbia voglia di guardare in faccia ai propri problemi?
- Oppure è una persona che è sotto l’influenza dell’ideologia dominante. Se penso di avere delle paure, oppure delle ossessioni, cioè delle paure da cui non riesco più a liberarmi e mi giudico secondo il pensiero psichiatrico, mi definisco col termine di nevrosi, che è sempre degenerazione; il suffisso – osi significa degenerazione. Cioè, uno può giudicare se stesso come lo giudicano gli psichiatri.
Questo è un problema grandissimo, perché moltissime persone accettano implicitamente il pensiero degli psichiatri e giudicano se stesse da quel punto di vista. Di conseguenza succede che delle persone si presentino spontaneamente in clinica psichiatrica. Molte vengono portate con la forza, ma alcune si presentano spontaneamente perché pensano che gli psichiatri possano aiutarli a liberarsi da problemi, contraddizioni, angosce, paure e dolori, che sono la loro esistenza. Pensano che siano un difetto o una malattia che gli psichiatri potrebbero curare.
Questo succede anche in altri campi. Non solo esiste un’ideologia per cui un popolo viene considerato inferiore, ma ci sono alcune componenti del popolo che vengono giudicate inferiori e che accettano questo giudizio. Può essere che delle persone che fanno parte di un gruppo, pensino che un altro gruppo abbia ragione a ritenerli inferiori, perché risentono dell’ideologia del gruppo dominante. Perciò uno può ragionare come gli psichiatri e invece di dire: “sono in un momento drammatico”, dice: “sono in un momento nevrotico o psicotico”. Accetta un linguaggio che non è il suo, se lo mette addosso e finisce per comportarsi di conseguenza.
- Posso dire: “ho avuto una crisi nevrotica” o “ho avuto una crisi psicotica”. Però posso anche dire: “in un certo momento ragionavo in quel modo e pensavo fosse giusto risolvere un problema proprio in quel modo. Ad esempio, gridando in una piazza”.
- C’è anche la questione: gridare in una piazza non si può fare? Non si può fare perché esistono delle convenzioni, perché da noi si usa così, in generale uno non si mette a gridare in mezzo a una piazza, ma anche questa è una convenzione.
Succede che uno che viene da un altro mondo, abituato a convenzioni diverse, finisce per fare cose che in un determinato posto, con determinate convenzioni non si possono fare. Uno che dall’Africa viene in Italia, fa delle cose che lì si possono fare. Ma di solito è un problema di rapporto tra individuo e società, cioè un problema di rapporto con le convenzioni.
Tutto il linguaggio psichiatrico non spiega niente. Inoltre il linguaggio psichiatrico viene spiegato in tanti modi. Per esempio, molti che scrivono su Hitler, dicono che era un pazzo. Non lo dicono invece degli psichiatri che dipendevano da Hitler e che eseguivano i suoi ordini, e neanche degli uomini di cultura come Heidegger o Furtwängler o Eisenberg che gli andavano dietro. Anche questo è un modo per nascondersi il problema, perché Hitler non era un pazzo, era uno che ha organizzato un’intera nazione su delle idee che dal punto di vista etico o politico possono essere rifiutate e io le rifiuto, ma in quella nazione migliaia di persone la pensavano come lui e l’hanno seguito. Quando c’è qualcosa di fastidioso da spiegare, la psichiatria cerca di mettere le etichette. Invece bisogna spiegare perché la nostra umanità europea è andata dietro a Hitler, a Saddam, a Bush o non importa chi. Sono problemi politici e problemi di rapporto con la società e vanno veduti per quello che sono.
L’assassino va veduto come assassino. La Bibbia comincia con un assassinio, Caino uccide Abele, ma nessuno nella Bibbia dice che lui aveva il cervello che non funzionava. Cercano di spiegarsi quali erano i motivi con il rapporto tra i due fratelli e con dio.
- Forse è difficile avere un pensiero originale, creativo, perché si è talmente abituati ad assorbire i pensieri degli altri e ci hanno abituati, spesso anche a scuola, ad assorbire i pensieri di quelli che ci ammaestrano. Spesso non viene insegnato a pensare autonomamente. Anzi, se si comincia a pensare cose diverse da quelle imposte, è più facile venire esclusi, avere delle difficoltà. La gente è quindi abituata a essere imboccata, il cordone ombelicale non viene mai tagliato.
- Ci sono delle filosofie che si sono affermate. Prendiamo per esempio Hegel. Hegel dice, ora io semplifico: “La storia converge verso lo spirito assoluto”. Questo è un concetto astratto e non dimostrabile. Però Hegel insegnava all’università, si è affermato, ha avuto dei seguaci, anche se questo suo pensiero non è meno assurdo del pensiero di uno che crede nella telepatia. E’ indimostrabile l’una e l’altra cosa. Ma se un pensiero è nelle istituzioni va bene, anche se è assurdo. Se un pensiero è individuale, uno rischia di passare per malato mentale. Per esempio una volta qui a Firenze all’università sono stato invitato da Pio Baldelli, che era stato di Lotta continua e ora è professore universitario. C’erano medici cattolici che parlavano di quella ragazzina che in Jugoslavia aveva avuto delle visioni della Madonna.
- Si, mi ricordo dei ragazzi di Medjugorie.
- Dissi loro che, siccome rispetto tutte le visioni di questo mondo, non avevo niente in contrario che loro discutessero di questa ragazzina e del suo rapporto eventuale con la Madonna. Se c’è o non c’è, questo non lo si può sapere. Però dissi anche che, se una persona viene accettata dalle istituzioni, diventa una santa. Se non viene accettata, la mettono in manicomio. Perché una persona, che dice di vedere la Madonna e non viene accettata dall’istituzione, viene portata direttamente in clinica psichiatrica. A Imola ho trovato diverse persone che si trovavano lì per le loro idee religiose, che non erano più logiche o meno logiche di quelle istituzionali. Il concetto di trinità, con tutto il rispetto, è un concetto che è assurdo per persone non credenti. Se arriva da un’istituzione va bene, se è invece un singolo individuo che esprime un concetto altrettanto difficile a spiegarsi, rischia. Allora smettiamola di pensare in questi termini e diciamo che ci sono delle idee che sono accettate dalle istituzioni e altre no. E chi ha delle idee diverse da quelle istituzionali rischia molto. Non perché ha il cervello diverso dagli altri, non perché una santa ha il cervello sano e un’altra che non è giudicata santa e ha le visioni, ha il cervello malato. Hanno tutt’e due il cervello e nel nostro cervello c’è la possibilità di credere in cose indimostrabili. Altrimenti non ci sarebbero neanche le religioni. La religione crede nelle cose indimostrabili. Allora se io ho delle idee personali indimostrabili, lasciatemi in pace, perché ne ho il diritto come ne ha diritto il vescovo.
- Vorrei soffermarmi sul concetto di psicosi che a mio avviso crea confusione.
- Psicosi vuol dire anche malattia di mente. Si possono cambiare i termini. Si pensa che una persona che ha pensieri che noi consideriamo inconsueti, è una persona che ha dei difetti cerebrali.
- Comunque per designare lo stesso concetto si usano anche le parole pazzia o follia.
- Pazzia o follia può voler dire idee molto diverse da quelle convenzionali. Invece psicosi o malattia di mente vuol dire che quello che ha idee diverse da quelle convenzionali, ha un difetto nella testa o un difetto nella storia psicologica. Sono due cose diverse: quando Dante parla di follia - lo dice qualche volta nella Divina Commedia - non intende che la persona ha un difetto, ma ritiene che fa delle cose che secondo la sua concezione del mondo gli risulta che la portino in rovina. Siccome Dante è molto intelligente, rispetta anche quelli che sono diversi da lui. Giudica il viaggio di Ulisse una follia, ma ha ammirazione per Ulisse perché anche lui ha dentro di sé il desiderio di andare al di là di tutti i confini, che è poi la fondazione della filosofia moderna. Dante precorre il Rinascimento con queste idee. Allora usare il termine follia o pazzia come fa ironicamente Erasmo da Rotterdam o come fa Pascal, vuol dire fare un discorso delle cose più comuni o meno comuni, o delle cose più semplici o più complicate.
Gli psichiatri invece aggiungono, che chi ha delle idee più complicate o diverse, ha un difetto nel cervello, e questa è un’aggiunta che fanno loro. La prima cosa da dire è che la malattia di mente non c’è, perché dal punto di vista medico non c’è. E’ stata inventata per giudicare comportamenti che non piacciono, che non seguono le convenzioni. Su follia, pazzia e saggezza si può discutere all’infinito, ma non c’entra la psichiatria, c’entra la filosofia, le concezioni del mondo, la storia.
- Non tutti sono organicisti, cioè non tutti fanno risalire la malattia mentale a una disfunzione fisiologica, ma alcuni la fanno derivare da un difetto psicologico.
- Appunto, lo dicevo prima che ci sono queste due teorie. Intanto se si tratta di una storia psicologica, dovrebbero capire che non è una malattia. Una variante è quella organica, ma dire organica non è esatto, perché è una loro invenzione, perché se loro avessero una conoscenza precisa dell’organico, non direbbero che una persona che non c’ha nulla è ammalata. L’altra variante, che però è conseguenza della psichiatria, dice che il difetto non è organico, che il difetto è psicologico, ma anche questo è sbagliato. Quale psicologia è quella giusta?
Uno può essere più o meno felice, può essere più o meno capace di difendersi nel mondo, può essere più o meno sereno, può essere più o meno apparentemente coerente nei suoi ragionamenti, può essere in tanti modi, ma non si tratta di un difetto psicologico, si tratta che siamo fatti diversamente. Entrambe le ipotesi hanno un grande difetto, che è il meccanicismo, cioè la spiegazione meccanica: l’orologio è guasto, il cervello non funziona bene.
La spiegazione meccanica è il trauma infantile. E’ chiaro che io posso avere avuto delle esperienze della mia infanzia che mi hanno fatto soffrire, altre esperienze invece mi hanno fatto godere e mi hanno fatto star bene, ma si tratta di una dialettica infinita tra molte esperienze, a cui non si può dare il giudizio di sano e ammalato, non ha nessun senso. Si tratta di esperienze diverse. Noi abbiamo la possibilità, con queste esperienze, di fare grandi cose o di fallire. Tutti l’abbiamo questa possibilità. Posso ripensare alla mia infanzia, ma stabilire che siccome un giorno ho visto i miei genitori fare all’amore, mi è andato tutto storto, è una barzelletta. Ma si può dire, che quello che vivo ora dipende anche da molte esperienze che ho fatto.
Le esperienze sono infinite e poi ci sono quelle nuove che faccio e le cose che invento, per cui non si può ridurre la vastità, direi a questo punto spirituale - per parlare di metafisica, di quello che è stato definito spirituale - perché va al di là, è un livello diverso. Ci sono le possibilità dei sentimenti, degli affetti, della poesia, della musica e della danza. Queste sono cose grandiose, che vanno al di là di tutti i piccoli schemi che sono stati fatti dagli psichiatri o dagli psicoanalisti.
 Infatti poi anche Freud ha fatto tutti questi schemi, ma i suoi stessi pazienti non ci volevano stare in questi schemi, giustamente. Non perché Freud fosse un cattivo psicologo, ma perché ha sbagliato a fare gli schemi. Probabilmente certi rapporti - se Freud era una persona ricca, come probabilmente era - certi rapporti sono stati buoni, sono stati utili. Ma gli schemi che ha fatto non servivano neanche ai suoi pazienti, l’hanno capito anche loro. Come faccio a dire che quell’episodio della mia infanzia ha determinato tutto il resto? Ce ne sono un’infinità, di questi episodi, tutti collegati tra di loro e poi ogni volta che io penso all’infanzia me la ricordo in modo diverso. Se ad un certo punto ho un’esperienza meravigliosa, rivedo tutto bello nel passato, se ho un’esperienza triste, rivedo tutto brutto. Allora il passato è sempre in cambiamento, secondo come io lo vedo e secondo di come lo vedono gli altri. Allora veniamo a questa ricchezza di pensiero e lasciamo gli schemetti che non servono altro che a farci perdere tempo e a far confusione.
- E forse anche a impedire la creatività a favore di una nostra involuzione.
- Come se fossimo macchine. In questa cultura contemporanea c’è la tendenza a considerarci come macchine. Noi non siamo una macchina perché la macchina l’abbiamo creata noi, come anche il computer, che è un oggetto meccanico e semplice. Siamo esseri viventi, non siamo macchine, anche un ameba non è una macchina, figurarsi noi. Abbiamo una struttura cerebrale che è la struttura più complessa dell’universo, per quello che conosciamo, ed è creativa, nel senso che uno può fare tutta la storia dell’umanità ma non tira fuori Mozart. Certo, Mozart aveva il padre musicista, ha studiato la musica fin da piccolino, però la sua musica prima non c’era ed è qualcosa di nuovo nel mondo.
Come si fa a spiegarsi Leonardo? Leonardo non aveva la madre, era figlio naturale, ma come ci si spiega la Gioconda? Freud tenta di farlo stabilendo il rapporto ridicolo tra omosessualità e opera d’arte. Leonardo non era neanche omosessuale in senso stretto. A Firenze, quando era a bottega di Verrocchio, era stato processato per omosessualità, ma era stato assolto. Che avesse avuto esperienze omosessuali o no, Leonardo ne aveva avuto anche altre, ci sono i suoi appunti di quando andava con le prostitute.
Una caratteristica di una persona non può spiegare tutto. E’ assolutamente sbagliato. Tanto meno si può spiegare un’opera d’arte con le inclinazioni sessuali dell’artista. Non ha nessun senso. Questi tentativi di spiegazione sono delle assurdità, delle semplificazioni.
A me non importa nulla di come faceva l’amore Beethoven, spero che sia stato felice e che lo facesse con soddisfazione, ma non ci può spiegare la IX Sinfonia.
- Continuo a insistere sul termine psicosi perché ho letto una testimonianza di un’ex-utente dei servizi psichiatrici, che è riuscita a staccarsi dall’istituzione psichiatrica, psicofarmaci compresi, cominciando a gestirsi i propri problemi da sola. Nel resoconto della propria esperienza parla però delle sue crisi psicotiche e poi passa a dare consigli su come evitare queste crisi…
- Agli inizi del novecento, gli psichiatri hanno discusso molto se l’isteria, come loro la chiamavano (è un nome schematico che si riferisce all’utero), fosse una malattia o no. Distinguevano bene: se io non muovo le gambe perché ho una lesione spinale, questa è una malattia neurologica. Ma se io non muovo le gambe e poi ricomincio a muoverle, non c’è una lesione e dunque non è una malattia, quindi dicevano che era simulazione. Anche loro avevano dei dubbi sul fatto di passare dal concetto di comportamento complicato, a quello di malattia. Dopo, negli ultimi tempi, hanno deciso che tutto è malattia, ma allora avevano dei dubbi. Infatti quel comportamento non è una malattia. Dipende anche dall’ambiente, ora ad esempio non si parla più nemmeno di isteria. Perché, come quello di strega, era un nome dato a una serie di fenomeni, che non c’entrano col nome.
Lasciamo perdere psicosi, isterismo, il problema è che noi possiamo entrare in una crisi di paura.
Le allucinazioni sono considerate un difetto nella nostra cultura. Il fatto di vedere o sentire in certi momenti delle cose che altri non vedono o sentono è una delle capacità che noi abbiamo, tanto che in certe religioni, come nello sciamanesimo, sono usate. I santi hanno le visioni. Che è un difetto vedere le cose che altri non vedono, sentire cose che altri non sentono, l’hanno inventato gli psichiatri; si tratta invece di una delle tante possibilità creative che abbiamo. Vediamo poi i perché, se vogliamo. Il primo punto è che una delle qualità fondamentali del nostro cervello, se ci pensi bene, è che io ora posso sentire la voce di mia moglie che è di là. Tu ora puoi sentire la voce di un amico che è in Svizzera. Posso vedere la cupola del Duomo o sentire il mormorio del mare.
Abbiamo la possibilità di vedere e sentire quello che non esiste, altrimenti saremmo ben limitati. In certe situazioni ci sono anche delle visioni particolarmente vivaci, chiamiamole allucinazioni. Ma bisogna vederle nel quadro delle infinite possibilità che abbiamo. Possibilità che sono magari più limitate in noi che in una persona di una tribù del Messico, perché lì non è vietato avere le visioni e qui invece è vietato. Si tratta di capacità creative e ne esistono un’infinità. Dagli psichiatri sono invece giudicate tutte dei difetti.
Infatti loro non giudicano solo l’allucinazione un difetto, ma poi addirittura vanno a cercare il difetto nell’artista, perché l’artista è il visionario per eccellenza, è un visionario speciale che concreta le visioni nelle opere di pittura, di musica, di scultura o di poesia. Però il nostro vedere al di là di quello che è immediato è una qualità nostra, altrimenti non ci sarebbe la cultura. Questo lo dice anche Hegel. Dice che il fatto che io possa vedere il cane sotto il tavolo a Heidelberg, mentre sono a Monaco di Baviera, è una delle qualità essenziali del pensiero. Allora vediamo le cose per quello che sono, invece di metterci degli schemi e dire questo va bene e questo non va bene. E’ chiaro che una persona che ha paura ed è presa dal terrore perché sente le voci che la minacciano, è in crisi e va aiutata. Ma non aiutata nel senso di dire: “Il suo cervello non funziona, mettiamolo a posto”. Aiutata nel senso che in un momento drammatico dell’esistenza, è meglio che essere soli, se non è qualcuno che ci incastra.
- Quindi questo momento drammatico non è qualcosa che sorge spontaneamente perché uno ha un difetto, fisico o psicologico che sia.
- E’ l’effetto di una infinità di esperienze.
- L’autrice della testimonianza di cui parlavo prima, dice che aveva iniziato a fare parte di un gruppo di auto-aiuto dopo aver smesso di prendere psicofarmaci e che era dispiaciuta per non aver spiegato alle altre persone del gruppo che lei ogni tanto aveva delle crisi psicotiche.
- Chiamiamole esistenziali, smettiamo di chiamarle psicotiche.
- Dice che ad un certo punto questa crisi è uscita fuori e ha cominciato a parlare a vanvera, a fare cose strane, a gridare e le altre persone del gruppo sono rimaste disorientate. E’ come quando viene la febbre, dice.
- No, è una cosa interiore.
- E’ una cosa interiore che mi capita perché ho dei problemi irrisolti?
- Ed esplode tutto insieme, come uno che sopporta, sopporta, sopporta e ad un certo punto esplode e fa qualcosa di drammatico.
- Potrebbe anche trattarsi di emulazione?
- Può essere anche qualcosa che momentaneamente ti sfugge di mano. Se uno si arrabbia può anche fare una cosa che non vorrebbe fare, ma questo non significa che non capisce quello che fa, significa che esplode, è la passione. Le passioni a volte ci travolgono, questo lo sappiamo, ma sono passioni. Non sempre si controlla tutto, perché siamo uomini ed è giusto che sia così. Si tratta di riportare tutto alla realtà di quello che è un essere umano, è così semplice il discorso. Alla realtà vera insomma, di cosa è un essere umano. Ci sono queste cose a livello individuale, ma anche a livello collettivo. Non a caso il carnevale è un’espressione, in cui ad un certo punto tutti fanno le cose che in altri momenti non possono fare. Ci sono anche nei popoli antichi dei momenti orgiastici, ne parla Nietsche in La nascita della tragedia. Siamo sempre controllati e a volte a livello collettivo o a livello individuale si esplode. Durante le partite di calcio succedono queste cose.
Il termine psicosi si usa anche normalmente per dire che c’è la psicosi del terrorismo, perché non si dice la paura del terrorismo? Ormai è un termine entrato nel linguaggio quotidiano, ma è un termine falso.
- Infatti, se un politico fa qualcosa con cui altri non sono d’accordo, spesso lo definiscono uno schizofrenico.
- Non a caso. Perché l’altro politico, se dice “lui ha torto”, deve accettare la discussione. Se dice che è uno schizofrenico chiude la discussione, dice che è un grullo e quello perde voti. Per squalificare, anche i giornalisti usano questa parola.
- Per una persona che ha già avuto un’esperienza psichiatrica, che ha assunto psicofarmaci con tutto quel che ti riserva il giudizio della collettività, è difficile riacquistare l’autostima. Se manca la stima da parte degli altri, ricostruirsi l’autostima è più difficile. Magari uno riesce a staccarsi dal controllo psichiatrico, dall’istituzione psichiatrica, ma gli rimane il dubbio. Capita ad esempio che ha dei pensieri che considera strani e quindi gli sorgono dei dubbi: “Chissà se questo pensiero è un pensiero anormale?” Un pensiero quindi, a cui dà una connotazione negativa. Il dubbio è di non funzionare bene.
- Invece di risponderti ti riporto una bellissima osservazione di Oscar Wilde che tra l’altro è stato perseguitato, è andato anche in prigione per la sua omosessualità. Diceva: “Quando gli altri mi danno ragione, ho l’impressione di essermi sbagliato”. Per rovesciare la cosa. E’ bellissima questa frase. Questa è la risposta a quello che dicevi.
- A volte si hanno dei pensieri di cui non si trova riscontro da nessuna parte, oppure esiste da qualche parte qualcuno che ha pensato o scritto delle cose simili, ma non lo si conosce. Allora si rimane disorientati, forse proprio perché nella nostra società tutto quello che si fa deve essere approvato e controllato. Viviamo pressoché sotto censura. Per cui, se si fa qualcosa di diverso, questo ci rende nudi, diversi, vulnerabili.
- Perché viviamo in un mondo in cui si è diffidenti verso l’originalità, la creatività. Se metti una persona in campo di concentramento la distruggi, ma non ne squalifichi il pensiero. Se la metti in manicomio, la squalifichi come pensiero. Molti anarchici italiani sono stati considerati malati di mente. Siamo in una società che nel ventesimo secolo ha costruito un’intolleranza verso la libertà di pensiero e la libertà di comportamento, che ha raggiunto limiti altissimi, di cui risentiamo tutti.
Uno deve essere se stesso, ma è difficilissimo. Questo non dipende solo dagli psichiatri, ma gli psichiatri danno un bel contributo. E’ difficile essere se stessi assolutamente, perché la convivenza è fatta di regole che diventano rigide, diventano autoritarie, ecc. ecc. Cade un regime e se ne forma un altro, magari ancora peggiore del primo. Anche il fallimento delle rivoluzioni. C’è la difficoltà di arrivare ad una libertà autentica che significa il diritto di essere diversi, non il diritto di essere uguali. Ci deve essere il diritto a essere diversi. Per questo il problema è vasto, ed è difficile essere se stessi. Però, attraverso la psicologia non ci si arriva mai, perché la psicologia è impostata su regole assolute e tutto quello che esce fuori deve essere tagliato.
- La diversità è anche scoprire ed entrare in mondi diversi. Studiosi e antropologi convengono che molti comportamenti, che in occidente vengono definiti come schizofrenici, psicotici ecc. corrispondono agli stati modificati di coscienza e alle pratiche sciamaniche praticate presso molti popoli, come i sami, i nativi americani, i siberiani e altri, o fanno parte dei percorsi di apprendimento dei guaritori.
- Quello che qui viene chiamato allucinazione, lì invece è un’attività che viene addirittura indirizzata per una certa funzione sociale. Perché lo sciamano ha una funzione sociale in un mondo differente dal nostro. Comunque resta il fatto che è un’attività della nostra creatività tra le tante possibili. In una società può essere utilizzata, in un’altra viene repressa, ma resta sempre un’attività creativa. Il problema è di vedere queste cose come una complessità nostra. Io posso dire che sento delle voci nel momento in cui non sono capace di costruire niente, perché queste mi fanno paura. Però fa parte dell’infinità dell’esperienza umana, che non deve essere sottoposta a delle regolucce, perché se no non ci si capisce più nulla.
- Non mi sembra nemmeno giusto mistificare qualsiasi comportamento ritenuto strano o non ordinario.
- Nella mia creatività posso fare delle cose utili e delle cose inutili. Anzi, delle cose utili e altre dannose. Anche quelli che dicono le messe nere hanno la loro creatività. Però il problema resta poi sul giudizio: questo mi piace e questo non mi piace, questo è un bene e questo è un male, secondo me. Ma non: quello lì è difettoso perché ha dei pensieri di un certo tipo. Hitler è stato molto dannoso, ma non era un pazzo, è stato dannoso perché ha costruito un’ideologia, insieme a tanti altri, che era un’ideologia di distruzione. Da una parte c’è Mozart o Goethe e dall’altra c’è Hitler. Però non sono pazzi né uno né l’altro, si tratta semplicemente di diversi modi di essere, alcuni che ci portano ad un arricchimento, altri invece ad un impoverimento. Ma se si mette un freno a tutti, si diventa tutti piatti e non ci rimane niente. Baudelaire diceva che l’uomo è infinito sia nel bene che nel male. Questo è legittimo dirlo. Nel senso che l’uomo è capace di invenzioni grandissime, sia nel mondo creativo, che è utile al genere umano, che in quello dannoso; ci può essere Gandhi e ci può essere Hitler. Ma fa parte dell’umanità che è così, per fortuna, ci mancherebbe che fossimo tutti inquadrati.
- Prima hai parlato della tua esperienza di Imola, so che hai fatto anche un’esperienza lavorativa insieme a Basaglia.
- Nel 1969 ho lavorato per sei mesi a Gorizia nell’istituzione psichiatrica dove Basaglia ha per primo detto che bisognava smantellarla.
- L’esperienza basagliana in che modo si è poi evoluta?
- Basaglia è stato il primo a dire a chiare lettere che il manicomio doveva sparire, ma non l’ha soltanto detto, si è messo insieme ai suoi, e per un periodo ci sono stato anche io a smantellare i manicomi, cioè a liberare le persone prigioniere, a renderle libere, ad aprire la discussione con i singoli individui e a organizzare assemblee, come ho fatto poi a Imola. Certamente con quest’opera Basaglia ha tagliato, di fatto, con il pensiero psichiatrico. Perché il pensiero psichiatrico è un pensiero di controllo, non un pensiero di libertà.
- E’ stato il primo a fare una cosa del genere?
- Si, per quanto riguarda il tentativo di distruzione di un manicomio.
- Non ci sono state altrove esperienze di questo tipo?
- Si, la mia a Imola.
- E in altre nazioni?
- Di questo tipo qui, con l’idea che il manicomio deve sparire, no, questa è un’esperienza italiana. In pratica non l’ha fatto nessuno da nessun’altra parte, hanno fatto degli aggiustamenti qua e là.
- L’esperienza che è partita in quegli anni a Gorizia con Basaglia, ha avuto poi un’evoluzione come la desiderava lui?
- Non credo proprio. Non ha avuto nessuna evoluzione. Non c’è più nessuno ora che lavora in manicomio come ha lavorato Basaglia. Quelli che sono stati con lui sono ritornati alle vecchie pratiche psichiatriche. Io ne ho discusso anche con lui, la differenza che c’era tra Basaglia e me, anche allora, era il fatto che Basaglia si asteneva dal discutere di psichiatria. Ne discuteva ma si teneva un po’ in disparte. Alcune cose le ho dette: “Bisogna tagliarci dietro i ponti, completamente, bruciare le navi come il navigatore”. Sono cose importanti, ma poi si è tenuto un po’ in disparte, non ha fatto una critica alla psichiatria in quanto pensiero. Però bisogna incominciare, poi ci sono anche altri. Non sto criticando Basaglia, sto dicendo che ha fatto delle cose importanti, altre invece non le ha fatte. Io sono andato oltre, nel senso che a Gorizia c’era un’attenuazione dei controlli, io invece avevo deciso che i controlli non dovevano più esserci.
- Un’attenuazione dei controlli in che senso?
- Vuol dire che le persone erano in cella e lui ha aperto le celle e ha tolto le camicie di forza. Però restavano ancora gli psicofarmaci, restava l’elettroshock dalle donne che ho tolto io, litigando con Pirella. Questo l’ho scritto anche nei miei libri, perché la questione verteva su dei casi singoli, quello è stato l’inizio. Io poi ho pensato di continuare quando sono andato a Imola. Inoltre non c’era solo l’esperienza di Basaglia, ma contemporaneamente, nel 1968, c’era l’esperienza di Cotti a Cividale del Friuli, a cui ho partecipato anch’io, che aveva aperto un reparto nuovo, neurologico, sempre aperto, senza psicofarmaci e senza controlli, in alternativa al manicomio. Ci sono state queste esperienze, poi è ritornato tutto com’era prima. E’ inutile che parlino di superamento dei manicomi. Nei vecchi edifici non ci sarà più nessuno, ma se si va in una clinica qualsiasi si può vedere che fanno le cose che si facevano prima nei manicomi.
- Ci sono i reparti psichiatrici e vengono chiusi a chiave.
- Si, sono chiusi e poi si fanno le stesse cose che si facevano prima, identiche, si usano l’elettroshock e gli psicofarmaci.
- Ci sono anche le comunità protette e le case famiglia.
- Che partono dal punto di vista del controllo psichiatrico. Case famiglia, comunità protette, tutto quello che vuoi, è sempre la stessa cosa. Cioè uscire dal manicomio significa uscire dal pensiero psichiatrico, perché il pensiero psichiatrico come pensiero di controllo ha costituito i manicomi, costituisce le cliniche psichiatriche, che sono luoghi di controllo e se le persone le controlli e le porti lì con la forza, con il trattamento sanitario obbligatorio, le tratti come prigionieri. Il manicomio è un metodo, non è un edificio.
- La legge che poi hanno chiamato legge Basaglia…
- Non è la legge Basaglia. Questo me lo ha detto Marco Pannella. Perché Pannella chiese un referendum agli italiani, voleva fare un referendum sui manicomi. Allora il parlamento alla svelta, per impedire il referendum, perché non si sa mai, fece una legge che è ambigua, contraddittoria e non serve assolutamente a niente. Certo può essere che ci siano degli appigli per difendere le persone, però è sempre una legge per cui una persona la prendi con la forza e la porti da qualche parte pretendendo di curarla, perché non la pensa come dici tu.
- Ha avuto un seguito la tua esperienza?
- Ci sono probabilmente delle persone che ne hanno risentito e che cercano di fare qualcosa, però la linea d’insieme è rimasta intatta. Anche perché c’è stato veramente uno scontro con una struttura e un pensiero internazionali. I manicomi ci sono dappertutto. Spero che in seguito terranno conto della mia esperienza per cambiare le cose.
- Cosa ne pensi di Psichiatria democratica?
- Di quella non vale nemmeno la pena di parlare. A parte che il concetto stesso è un concetto che non ha nessun significato. Fanno le cose che fanno gli altri. In più c’è anche l’ipocrisia di chiamarla psichiatria democratica. La psichiatria è un controllo del pensiero per cui non può essere democratica, è una contraddizione in termini. E poi figurati, per esempio con me ce l’hanno a morte, gli psichiatri democratici. E non lo dico per un’impressione, mi ricordo che degli amici di Pistoia volevano presentare il mio libro presso un’associazione culturale, ma sono intervenuti gli psichiatri democratici, presso l’associazione culturale e non me l’hanno fatto presentare. A me non importa, ma per dire che pretendono di controllare anche il pensiero mio, figurarsi quello dei loro pazienti. In Italia si può anche leggere Mein Kampf di Hitler e si può anche farne un dibattito. Loro invece hanno voluto impedire un mio libro, per dire qual è la loro democrazia. Sono autoritari e pretendono di controllare quelli che gli capitano tra le mani, ma vorrebbero controllare anche al di fuori, per cui con questa gente non c’è niente da spartire.
- All’estero pensano che Psichiatria democratica sia la continuazione dell’esperienza di Basaglia.
- Loro dicono che è l’esperienza di Basaglia che continua, ma in realtà non continua per niente e fanno le cose che fanno gli altri. Anzi, c’è più ipocrisia.
- A una persona che ha il problema di smettere gli psicofarmaci, tu che consiglio daresti?
- Cerco di scalare, se la persona è d’accordo naturalmente. Perché se la persona non fosse d’accordo, non sarebbe giusto, tra l’altro. Ma se una persona vuole scalarli, io lo faccio anche rapidamente. Poi la persona mi dice se sente qualcosa che non va. Nel senso che c’è la dipendenza, l’astinenza. Allora se c’è qualcosa che non va, procedo più gradualmente, però vanno tolti. Toglierli fa sempre bene al fisico. Togliere gli psicofarmaci migliora sia il fisico, che il cervello. Però ci vuole la prudenza legata ai problemi di astinenza, nel senso chimico e fisico, e anche dell’astinenza in senso psicologico. Perché quando uno è abituato a prendere una sostanza, se non la prende gli manca. E’ come chi prende un sonnifero, se non lo prende più non dorme perché pensa che senza sonnifero non possa più dormire. E allora ne rimane schiavo.
Intanto si discute cosa sono gli psicofarmaci, di modo che la persona sia convinta di quello che fa. Se la persona è convinta, si possono togliere in una settimana e non si fa altro che guadagnarci. Se non è convinta ci si mette di più, ma vanno tolti, se la persona è d’accordo. Io non faccio mai niente senza che la persona sia d’accordo. Questa è la base, è il rovescio della psichiatria. La psichiatria ha il trattamento sanitario obbligatorio, dunque pensa di dover intervenire anche con la forza. Io intervengo solo se la persona è d’accordo. Perché quando ero medico di guardia a Imola e ricevevo quelli che arrivavano, li rimandavo indietro tutti, a meno che non volessero restare. Quando venivano portati con la forza mandavo via la polizia, parlavo con loro, perché ne avevo la possibilità. Dicevo loro che se volevano potevano andarsene e se volevano potevano restare. Dicevo loro che restare era pericoloso, ma li lasciavo scegliere, come i miei pazienti a Imola. Discutevo con loro, ma poi sceglievano loro. Se dovevano essere dimessi dovevano scegliere loro se andare via o no, non li mandavo via. Questo non penso sia successo da altre parti. Questo non succedeva neanche a Gorizia. Per me quello che sceglie la persona è importante. Se la sua scelta mi sembra un po’ legata a dei pregiudizi, io ci discuto. Se una persona vuole togliersi gli psicofarmaci si fa presto e si tolgono rapidamente. Se ne prende 50 mg al giorno io le dico di prenderne 25 mg al giorno, a partire dal giorno dopo, poi si vede. La settimana dopo si dimezzano ancora fino a toglierli completamente. Bisogna che la persona sia convinta che toglierli è utile. Questo è il supporto. Perché se non è convinta ha dei dubbi; magari mentre sta smettendo gli psicofarmaci succede che gli vengono dei pensieri, ha paura. Tra l’altro, alle persone che tolgo gli psicofarmaci dico anche che è inutile prenderli, perché le medicine si prendono quando c’è una malattia, a volte. Ma se non c’è una malattia è inutile prenderle. Se una persona è convinta, se li toglie anche in una settimana. Se non è convinta si deve convincere, se vuole. Se poi non vuole non se li toglie. Io ho trovato persone che dicono che li prendono e che gli fanno bene; va be’, se lo dicono loro! Quello che a me da fastidio è la costrizione. Le persone devono farle da sole le scelte, io non voglio salvarle.
- Se una persona dice di stare bene con l’eroina, io sarei del parere di darle la possibilità di procurarsela senza correre rischi e senza commettere reati.
- Si, infatti. Io sono antiproibizionista, lo sono sempre stato. Nel senso che uno deve scegliere da se cosa prendere e cosa no, non deve essere lo stato a decidere cosa si può prendere.
- Rispetto a quello che dicevi della psichiatrizzazione generalizzata, è sempre più di moda fare la doppia diagnosi, nel senso che se prima un tossicodipendente era un tossicodipendente e basta, adesso sempre di più viene stigmatizzato anche come malato di mente.
- Io non consiglierei a una persona di prendersi l’eroina, perché penso che queste sostanze fanno male, non nel senso che si dice generalmente, ma nel senso che il nostro sistema nervoso non ha bisogno di prendere roba che ne alteri le qualità, questo è il mio parere. Però se uno vuole prendere la sostanza se la prende.
Ci fu perfino un discorso della Rita Levi Montalcini, che fece addirittura l’ipotesi che la tossicodipendenza sarebbe un problema genetico, ritornando ai vecchi concetti, invece che una scelta come tante altre, oppure che uno ci si ritrova. Ma i drogati sono in pratica considerati dei malati di mente ora. Nota l’assurdità: uno che prende una droga proibita è un malato di mente. Se proibissero l’alcol come è successo in America negli anni trenta, succederebbe che chi beve un bicchiere di vino o un cognachino, diventa un malato di mente. Questo fa vedere come il concetto di malattia di mente è un concetto che si radica su una convenzione. Perché io sono quello che sono, mi bevo il whisky. Se ci fosse il proibizionismo, se ora bevendo un bicchiere di whisky non sono un malato di mente, lo diventerei. Ma sarà più buffo di così il concetto, e ridicolo, insomma senza senso, senza fondamento. Semplicemente quello che non si deve fare secondo lo Stato non lo devi fare se no ti danno l’etichetta di malato di mente. E’ strano che molte persone che si dicono libertarie non capiscono a volte questo discorso. Si dicono libertarie ma poi accettano che lo stato imponga il modo di pensare. Quando il costume e lo stato dicono questo è proibito, se tu lo fai ti etichettano. Questo per confermare che la psichiatria è una truffa.
- Ho sentito dire che tra i bambini costretti ad assumere psicofarmaci, nel caso specifico il Ritalin, ci siano stati dei casi di suicidio.
- Ci sono stati dei casi di morte. Io sono stato a Los Angeles nel 2003 e ho parlato con due genitori, che quando hanno saputo che al loro figlio che frequentava la scuola volevano dare il Ritalin, hanno detto di no. Allora sono stati minacciati che il loro figlio sarebbe stato mandato via di scuola. Sono quindi stati costretti ad accettare e poi il loro figlio è morto. Ci sono diversi morti, non suicidi ma morti per intossicazione da psicofarmaci. Io questo lo so di sicuro, perché a Los Angeles ero insieme ai genitori che erano lì per protestare. Sono andato a Los Angeles perché mi hanno dato un riconoscimento per il lavoro che ho fatto in manicomio, considerandolo unico per l’appunto. Ho incontrato medici, genitori e neurologi che sono contro i trattamenti psichiatrici. Ho incontrato anche un neurologo che dice che a lui non risulta che la malattia di mente sia una malattia, perchè lui come neurologo non ci vede nessuna malattia. E poi ho trovato questi genitori che stanno facendo operazioni giuridiche contro i medici che hanno ucciso i loro figli, per cui il problema è diretto. Il Ritalin può ammazzare un bambino. Il dottor Roberto Cestari di Milano, che si occupa di questa cosa, ha mandato delle comunicazioni anche nelle scuole per dire: questi sono gli effetti, se poi voi date loro gli psicofarmaci, siete stati avvisati. Se a un bambino dai degli psicofarmaci intanto lo sballi, non è più lui e poi lo puoi anche uccidere perché sono tossici. E naturalmente si fa la diagnosi al bambino perché il bambino è vivace, non sta abbastanza attento, non è abbastanza disciplinato, ma i bambini devono essere così. Qui in Toscana un bambino che non è vivace e indisciplinato lo chiamano il tonto. Il bambino se è sano è vivace. C’è da preoccuparsi se non lo è.
- Inoltre adesso il mondo sta diventando sempre meno a misura di bambino. Mi sembra che quando ero bambina io ci fosse più spazio per i bambini.
- Adesso sono incastrati, sono terrorizzati. Poi alcuni anni fa c’erano gli insegnanti, ora c’è lo psicologo. Chiamano subito il medico. In passato al bambino indisciplinato, non per rimpiangere i tempi passati, non c’era lo psicologo a rompergli le scatole. Alcune cose peggiorano.
- Perché è sbagliato il concetto di malattia mentale?
- La premessa è questa: il nostro pensiero ha una larghissima possibilità di variazione che deve essere presa per quello che è, cioè il nostro pensiero non rientra soltanto in alcuni schemi che sono quelli convenzionali, ma segue anche tante altre strade, in ognuno di noi, anche se a volte teniamo da parte certi aspetti di questo nostro pensiero, per adeguarci a quello che sono le regole sociali, o le regole stabilite dal pensiero ufficiale.
Il nostro pensiero non è né logico né illogico, ma può essere tutti e due. Poi si può anche discutere su cosa significa logico e illogico. Bisogna considerare il nostro pensiero per quello che è e vedere anche gli stati d’animo per quelli che sono. Le variazioni di stato d’animo, dalla disperazione alla gioia grandissima, dall’equilibrio all’esaltazione, dall’esaltazione alla malinconia, fanno tutti parte della nostra natura fisiologica, del nostro patrimonio.
Gli psichiatri fanno l’errore di considerare alcune vie tradizionali come la verità e altre vie meno tradizionali e meno convenzionali come false. Attribuiscono ad un difetto del cervello ciò che a loro risulta falso e illogico. Fanno due errori: un errore filosofico, considerando il pensiero e il modo di sentire, valido soltanto se rientra in determinate convenzioni. All’errore filosofico aggiungono un errore scientifico, affermano che quelli che vanno fuori le vie convenzionali non sono a posto con la testa, mentre sono a posto con la testa come gli altri.
Gli scienziati stabiliscono dei principi e dei metodi, ma accanto alla scienza c’è la religione. La religione ad esempio segue altre strade. In ogni religione ci sono delle realtà che non sono logiche. Nel concetto della trinità non c’è nessuna logica, nel senso corrente della parola. Però i religiosi sono d’accordo ad accettare questo mistero, come dicono loro.
Poi c’è l’arte che segue altre strade ancora e nell’arte si seguono tutte le strade possibili. Il poeta parla con la luna, con i boschi, con le stelle e questo è un altro mondo ancora. Tutti questi mondi fanno parte dell’uomo nella sua ricchezza e non vanno dimenticati. Gli psichiatri invece non fanno altro che le sentinelle di certe convenzioni e vogliono che tutto vi rientri, prova ne è che loro seguono queste convenzioni.
Se una persona dice delle cose non dimostrabili nell’ambito delle religioni istituzionali, per loro va bene. Se invece dice delle cose indimostrabili a livello individuale, a loro non va più bene. Se il papa dice che il diavolo esiste, che ha una realtà effettiva, che anche se non lo incontri però da qualche parte c’è, gli psichiatri non dicono niente e i preti che fanno queste affermazioni non vengono considerati pazzi. Se invece una persona che non conta niente, una contadina per esempio, dice che è indemoniata, la prendono e la mettono in una clinica psichiatrica. C’è un atteggiamento di sottomissione alle convenzioni e nello stesso tempo di sottomissione alle autorità. Se una cosa viene dalle autorità, per quanto assurda sia, va bene. Se invece non è stabilita dalle autorità, anche se non è assurda per niente, finisce per essere considerata una pazzia.
Questo vale anche per quanto riguarda gli stati d’animo. Perché dire che uno non è normale perché è così triste che ha voglia di morire, significa non concedere a un uomo nella sua integrità, di essere così disperato da aver voglia di morire. Perché non può esserlo? Anche gli stati d’animo sono regolamentati, bisogna avere gli stati d’animo che dicono loro, bisogna avere i pensieri che dicono loro, tutto questo in dipendenza delle convenzioni e delle autorità.
Nei costumi è la stessa cosa. Lo dico sempre, perché si tratta di una cosa molto importante: per alcuni l’omosessualità era una cosa non normale, non fisiologica, dunque una malattia, una malattia di mente. Ora il mondo sta cambiando e se uno che è omosessuale può diventare governatore di una regione, o deputato in parlamento, cambiano le cose e loro si tirano indietro. Stabiliscono delle regole che indicano soltanto una dipendenza dalle convenzioni e dalle autorità, e puro conformismo.
Uno può anche essere conformista, ma se dice che quello che non lo è, è pazzo – il termine pazzo in senso generico, corrisponde al termine malato di mente in senso specifico – è pericoloso. Allora di qui si vede che tutte le persone che sono uscite fuori dalle regole per la loro immaginazione e ricchezza di fantasia, anche nell’arte o perché non entravano nelle regole di tutti i giorni, sono stati definiti secondo la famosa teoria lombrosiana, sulla base della quale gli artisti sono tutti un po’ matti. Ma gli artisti sono delle persone che hanno tirato fuori delle cose che nessuno ha tirato fuori prima, perché se no che artisti sarebbero?
Non essere nelle convenzioni e nelle regole diventa primo, non essere regolari, secondo essere malati di mente. In questo ci sono due sbagli, uno filosofico e l’altro medico. Per quanto riguarda quello medico, si fa presto a dirlo: non si discute se il diabete è o non è una malattia, perché se io come medico a una persona che si sente debole e gli vengono facilmente delle infezioni, faccio la diagnosi di anemia, poi un altro medico fa la diagnosi di diabete, due medici hanno fatto una diagnosi diversa. Ma in base agli esami che si fanno, la diagnosi giusta è quella di anemia o quella di diabete.
La medicina, da Rudolf Virchow in poi, ha stabilito che una malattia è un’irregolarità definita dei tessuti o degli organi, che si vede al microscopio, e quando uno è morto si verifica facendo l’autopsia. Al di fuori di questo, non c’è malattia, ci può essere l’ipotesi di malattia, che la psichiatria fa sulla base di comportamenti non regolari.
Il morbo di Alzheimer è una malattia del cervello, perché se si osserva il tessuto del cervello di una persona morta con il morbo di Alzheimer, le cellule sono degenerate, non sono cellule strutturate normalmente e quindi si tratta di malattia. Nell’epilessia si riscontrano delle irregolarità elettriche del cervello e poi si vede che in un certo punto c’è una lesione cerebrale. Nella sifilide cerebrale il cervello è lesionato dal microrganismo della sifilide. Le malattie si definiscono in senso istologico e anatomico, altrimenti non si tratta di malattie e non c’entra la medicina. È errato dare un giudizio bigotto, conformista, convenzionale, sul comportamento e fabbricarci sopra una malattia immaginaria. Questa malattia immaginaria è tremenda perché non significa semplicemente che uno è ammalato. Se una persona è affetta da diabete, non per questo perde la stima, invece se si dice che è ammalato di mente perde la stima, perchè viene considerata una persona che non è uguale agli altri dal punto di vista del pensiero e mette la persona in condizione di inferiorità, tanto che chi è considerato ammalato di mente può essere rinchiuso con la forza, perché si considera incapace di ragionare da sé, può essere interdetto e privato dei suoi diritti politici e civili, cioè diventa un uomo che non è più padrone di sé.
- In più esiste anche lo stigma sociale, perché anche i parenti, gli amici o i conoscenti, le persone che non fanno parte dell’istituzione psichiatrica, la inquadrano come persona che ha comportamenti e pensieri sbagliati a causa del suo cervello o della sua psiche ammalati. Hanno paura che da un momento all’altro possa avere un cosiddetto raptus. Alla radio ho sentito una donna che diceva: “Ho paura di mio figlio, perché da un momento all’altro potrebbe avere un raptus”. La prima volta lo aveva fatto psichiatrizzare lei, però in quel momento aveva difficoltà a farlo ricoverare. Diceva che aveva paura, perché gli era stata fatta una diagnosi psichiatrica.  
- Questa è un’altra superstizione. Il raptus è il corrispondente dell’indemoniato. Come in antichità, nel ‘600, si pensava che una strega fosse pericolosa, primo perché aveva il demonio addosso e poi perché poteva, avendo il demonio addosso, avere dei comportamenti imprevedibili. Il raptus è un concetto mistico che non ha nessuna corrispondenza se non nella superstizione. Dunque la psichiatria, questo Szasz lo dice continuamente, sostituisce l’inquisizione e al posto delle streghe ci mette i malati di mente. Noi tutti siamo imprevedibili, perché ognuno di noi, per quanto possa essere regolare giorno per giorno, può fare delle cose che non si aspetta. Credere che alcuni hanno il raptus, è come pensare che alcuni sono indemoniati, è identico, e non ha nessun fondamento scientifico.
Lo psichiatra dice che la persona a cui fa la diagnosi non è una persona come le altre, ma è una persona che può fare qualsiasi cosa. Mi ricordo che quando cominciai a frequentare i manicomi, anche qui a Firenze, gli infermieri dicevano che i pazzi hanno più forza di quelli che non sono pazzi, tanto per dire cosa produce la superstizione e il misticismo. In sintesi: la psichiatria è una superstizione.
- Magari l’esplosione di rabbia o uno stato di ansia di una persona psichiatrizzata, sono dovuti al fatto che vive costantemente in uno stato di paura o di rabbia.
- Ad un certo punto una persona che viene umiliata e degradata ha la rabbia dentro di sé.  Ad esempio un immigrato che viene visto continuamente come una persona da cui guardarsi, ha la rabbia dentro e può capitare che gli saltino i nervi e faccia qualcosa per difendersi o per rifarsi. Questo succede perchè siamo esseri umani. Se mi metti sotto umiliazione, mi metti in condizione, se non ho potere, di dover subire, fintanto che, se mi piglia la rabbia, ti posso saltare addosso. Ma bisogna sempre riportare la cosa agli uomini: un uomo umiliato, che non ha il potere per rifarsi dalle umiliazioni, a lungo andare può diventare pericoloso.
- Magari dice delle cose e non gli si dà retta, viene trattato come se le sue parole non avessero valore, come se quello che dice fosse sempre negativo.
- In manicomio notavo, l’ho anche scritto, che gli infermieri, le infermiere e anche i medici, si rivolgessero alle persone – come ora si fa nelle cliniche psichiatriche – dando loro del tu, anche se la persona aveva sessant’ anni. Parlavano con loro come si fa con i cani: “Ma bellina, l’hai fatta colazione stamani”? e discorsi di questo genere. Quando li sentivo interferivo sempre, ma non sono mai riuscito a far loro superare questo atteggiamento, che non è alla pari, cioè “io parlo con te e tu parli con me”, ma è l’atteggiamento del superiore con l’inferiore. Questo lo si osserva negli schiavisti che trattano gli schiavi, dando loro del tu e trattandoli come cani, e nello psichiatra, l’infermiere psichiatrico e i parenti con la persona. A Imola, andavo vestito come gli altri e neanche in modo particolarmente elegante, e tutti gli ex-internati erano vestiti con i loro vestiti, talvolta anche più eleganti di me; quando arrivavano i parenti che si facevano largo a gomitate e io ero sull’uscio a parlare, siccome pensavano che si fosse tutti dei ricoverati, a volte ricevevo delle gomitate. Io poi dicevo che ero il medico e allora si scusavano, ma non era questo il problema.
C’è prima di tutto l’arbitraria, va sottolineato tre volte, arbitraria definizione dell’altra persona come essere inferiore. Ne consegue tutto il resto: le umiliazioni, i maltrattamenti, al limite dell’eliminazione fisica e della morte, come se fosse una cavia. Sono tutte conseguenze che partono dal principio che uno che non la pensa come me o che ha dei sentimenti, degli affetti, delle passioni che io non condivido, è un essere inferiore. Per esempio, se uno si sente perseguitato, è segno che qualcosa gli è capitato. Se attribuisce questa persecuzione a persone vere ci azzecca, se l’attribuisce ad altre persone si sbaglia. Ma sbagliarsi non è una malattia di mente.
Uno dice che sente le voci. Io rispondo che siccome abbiamo un cervello ricco e creativo, possiamo anche sentire quello che non c’è. Così come normalmente posso sentire la voce di mio fratello che è in collina, pur essendo lontano, posso sentire la voce di un mio amico che sta a Parigi, posso sentire la voce del mio conoscente che sta a Los Angeles, posso sentire la voce di mia moglie che sta di là. In certe circostanze parlo anche con quelli che non ci sono, cosa che faccio sempre, però esprimo questa esperienza. Posso anche dire che sento le voci che mi comandano di fare una cosa o l’altra, oppure che sento le voci che mi invitano a non fare una cosa o l’altra, perchè esprimo, in modo esplicito, quello che ho dentro di me, la voce della coscienza, come si dice normalmente.
Cioè noi abbiamo dentro tutta una ricchezza di possibilità e tutte queste possibilità sono parte della vita normale, anche se, siccome si vive in una società ristretta e limitata, a volte certi aspetti della nostra personalità li lasciamo da parte. Per esempio lo sciamano non ha difficoltà a dire che parla con gli alberi, o che sente la voce di dio, perché sa che ha l’autorità e lo può dire, invece uno nella nostra società in cui tutto è inquadrato, se dice quello che dice lo sciamano, finisce in manicomio.
Cioè noi abbiamo dentro tutta una ricchezza di possibilità. Mi ricordo una donna a Imola a cui ho tolto la camicia di forza, che era anche una studentessa in medicina, che fu ricoverata perché dichiarava di credere nella telepatia. Ora il problema non è se uno crede o non crede alla telepatia, come non lo è se uno crede o non crede alla trinità, ma è il fatto di considerare matto chi crede una cosa diversa dalla tua. Posso anche credere che ci sono i cavalli alati, ma che te ne importa a te? Sono affari miei. Che mi ricoverino perché credo che ci sono i cavalli alati è assurdo. Se dico che sono il re di Francia puoi pensare che mi sono montato la testa, che vado fantasticando, puoi pensare che faccio prevalere la fantasia sulla realtà. Questo non significa che tu hai il diritto di dire che io ho il cervello difettoso e prendermi con la forza e portarmi da qualche parte per cambiarmi il pensiero. Puoi dirmi che non sei d’accordo, che Carlo Magno è un altro che è vissuto in un’altra epoca in Francia. Si può discutere di tutto, però non si deve considerare esseri inferiori, cioè persone con difetti nella testa, persone che la pensano in modo che a noi non risulta, in modo diverso a quello a cui siamo abituati.
Nota bene, che a questo problema è collegato il problema del difetto biologico, perché come il razzista dice che le usanze diverse della persona nera o dell’Amazzonia sono dovute ad un difetto biologico, così lo psichiatra dice che la persona che non la pensa secondo le convenzioni accettate, o che fa delle cose inusuali, ha un difetto biologico. E’ il nero un essere inferiore che ha un difetto biologico? Questo è arbitrario, in realtà il nero fa bene a pensare in modo diverso dal bianco, pensa a modo suo, quando non è poi abituato a pensarla come gli altri in America. Così come l’abitante dell’Amazzonia, anche quello che dice “io sono il re di Francia” oppure “mi sento perseguitato dal KGB”, la pensano diversamente e non hanno difetti biologici. C’è l’abitudine, insorta nel periodo dello sviluppo della scienza, diciamo così, di attribuire un difetto biologico a chi ha un pensiero che non ci piace, che si tratti di un altro popolo considerato inferiore o di un individuo che non rientra nelle regole sociali che noi vorremmo attribuire o imporre a tutti quanti.
- A volte ho sentito persone che sono d’accordo con queste considerazioni. Però – dicono – ci sono persone che stanno male.
- Voglio precisare subito una cosa: quando si dice che la persona sta male si fa un’operazione linguistica falsa, perché si dice che la persona sta male, ma s’intende dire che la persona è ammalata. Allora la persona che sta male può avere bisogno di aiuto, ma non è una persona ammalata, per cui non ha bisogno di un aiuto medico. Una persona che sta male moralmente, ha bisogno di altri aiuti: aiuti di possibilità di comunicazione, di comprensione, di condivisione delle sue esperienze, che sono tutto l’incontrario di quello che viene fatto dagli psichiatri. Si fa sempre questo discorso, come quando si dice che la persona ha problemi psichici. Che cosa vuol dire? Una persona viva, ha sempre problemi psichici, solo il morto non li ha. Si dice ipocritamente “problemi psichici”, perché si intende, ma non si ha il coraggio di dire, “malato di mente”. Allora lasciamo andare le ipocrisie del linguaggio, la doppiezza, e parliamo chiaro. Perché se io sto male, ho bisogno di qualcuno che capisca i miei problemi, non di qualcuno che cura una malattia che non ho. Una persona che sta male e chiede aiuto avrà un aiuto, ma non certo dagli psichiatri.
- Spesso succede che quando si hanno dei problemi esistenziali, i parenti e gli amici si allontanano. Quando poi si viene stigmatizzati come ammalati psichici, gli altri hanno paura.
- Questo dimostra che, siccome siamo in una cultura permeata dalla psichiatria, cioè una cultura fondata sui principi della psichiatria, se tu non parli il linguaggio solito, l’altro ha paura, perché c’è questo pregiudizio. Io ad esempio non ho mai avuto paura di chi parla un linguaggio diverso, o apparentemente diverso. Se qualcuno mi dice delle cose che non corrispondono ai discorsi convenzionali, io ho sempre affrontato il discorso, in manicomio e fuori dal manicomio.
La paura è legata all’ambiente sociale, come la paura dell’immigrato è legata al pregiudizio sociale, perché se non ci fosse il pregiudizio, non si avrebbe paura di uno che arriva dalla Nuova Guinea più di quanto si ha paura di un estraneo che viene da Bologna. Allora bisogna tener conto che ti trovi immerso in questa sottocultura e che gli altri si comportano di conseguenza.
Perché ho cambiato le cose? Perché non ho accettato questa sottocultura, sono andato sempre diritto senza nessun timore. Quando io respingevo i ricoveri coatti a Imola, trovavo persone che mi dicevano cose che mi implicavano molto. Affrontavo persone che erano arrabbiate perché erano in camicia di forza e le avevano portate lì con l’ambulanza. Le facevo slegare, mandavo via gli infermieri, entravo da solo in una stanza con loro e dicevo che li avrei liberati. Uno mi diceva ad esempio: “Io sono nazista e ti taglio la gola”. Allora dicevo: “Così ci azzecchi perché io sono comunista” e si incominciava a parlare. Potevo anche essere aggredito, ma non avevo paura dell’aggressione di uno che diceva cose strane. Un altro può sempre aggredirti, ma se hai un rapporto diretto è più difficile.
Una volta arrivò uno con l’ambulanza. C’erano tre infermieri che lo accolsero, il medico non era ancora arrivato e loro lo slegarono. Era un tipo forte e li stava facendo a pezzi tutti e tre. Arrivai io, il medico, e per un momento si fermò. Allora gli dissi di venire con me da solo in una stanza. Gli infermieri mi dissero: “No, veniamo anche noi”. “No”, io dissi, “vado da solo, perché se venite anche voi, gli si dichiara guerra. Invece io da solo non gli dichiaro guerra”. Infatti non mi successe nulla.
Tutto questo lo sto dicendo per dire che le persone comuni, intendo dire le persone conformiste, si impauriscono delle cose che non rientrano nelle regole comuni, perché fanno parte di una cultura del conformismo in cui tutti quelli che sono diversi fanno paura, sia che si tratti di qualcuno che fa o dice qualcosa di diverso rispetto a quello che diceva o faceva fino al giorno prima, sia che si tratti di uno straniero. Stiamo valutando contro una cultura che non accetta le differenze, una cultura inquadrata. Ora è un po’ diverso, ma perché se uno va in giro col cappello rosso le persone si spaventano?
- O lo guardano in modo strano.
- Si, perché cosa c’è di pericoloso? Non solo lo guardano strano, ma sono più diffidenti. Perchè qualcosa che è diverso, fa paura. Questo può essere anche legato a certe nostre esperienze antiche. Ci si abitua, ci si crea un ambiente e se c’è una variazione di ambiente si ha paura. Però non cambia niente, il problema è che le persone hanno paura delle differenze. La nostra cultura non fa altro che accentuare questa paura. Gli psichiatri istituzionalizzano questa paura. La persona che dice “io sono Carlo Magno e voglio comandare invece che obbedire”, magari è un disgraziato che ha dovuto obbedire per tutta la vita e si è scocciato, lo prendono con la forza e lo portano via e lo dichiarano pericoloso quando non ha fatto niente di male. Si deve costruire una cultura in cui il diverso non fa paura, questo è il problema fondamentale per la psichiatria e per altri problemi come il razzismo e l’intolleranza verso altre idee e altri pensieri.
- I problemi esistenziali di una persona che è sempre più isolata, si accentuano sempre più, perché si aggiunge il problema dell’incomprensione. Nel caso che intraprenda un percorso per risolvere o scoprire qualcosa, per evolversi o cambiare se stessa, è possibile che imbocchi una via sbagliata. Cercando di uscire da una situazione difficoltosa, può sentirsi sempre più intrappolata dentro un labirinto e non riuscire più a uscire dai problemi.
- Più uno fa dei tentativi per trovare una comunicazione, più uno si trova tagliato fuori. Questo è un momento in cui ci si rende particolarmente conto che gli altri non ci capiscono, questo succede tutti i giorni. Cioè succede quando noi comunichiamo su alcuni piani convenzionali, ma quello che ci preme di più, agli altri non arriva mai. Se mi trovo in un momento in cui ho particolarmente bisogno, gli altri non lo vogliono nemmeno sapere. Gli altri invece non mi riconoscono, perché io sono questo, ma anche questo e quest’altro.
Quando tu parli di qualcosa che non è senso comune, conformismo, di colpo ti trovi che se pretendi di essere capito finisci poi per metterti nei guai. Per cui non è soltanto quando uno sta male che ha bisogno degli altri, ma uno sta male perché gli altri non ci sono mai. E quando se ne accorge cerca tante altre strade per comunicare e più cerca di comunicare, più moltiplica le strade come dici tu, più si accorge che gli altri non ci sono. Allora si ritorna al problema che non si comunica, al problema che la maggior parte delle persone non comunicano con gli altri, è questo il problema, questo è veramente il problema.
Anche nel rapporto tra uomo e donna, ci sono rarissimi casi in cui si comunica veramente, allora può succedere che ad esempio la donna per richiamare l’attenzione dell’uomo di cui è innamorata si mette a fare altre cose, o si taglia le vene o apre il gas. Il problema è che non riesce mai a fargli capire chi è lei e a comunicare sul serio, vanno a letto insieme ma non comunicano. Questo non comunicare è il nocciolo del problema, non il fatto di fare cose strane. Non comunicare, perché la comunicazione convenzionale, che è una comunicazione formale legata alla produzione, all’andare in guerra, all’andare alla partita, al guardare la televisione, non ha niente di interiore. Infatti, poi ci si trova un compenso sentendo Mozart, leggendo Leopardi, chi ha la fortuna di poterlo fare. Perché in realtà non si comunica. Quando ci penso, tra una vita abbastanza lunga ormai, con tutto il lavoro che ho fatto, le comunicazioni le trovo rarissime.
Hegel ha detto una volta – io non sono un simpatizzante di Hegel per tante cose, ma questa l’ha detta veramente giusta – ha detto che il senso essenziale di un essere umano, non è ne la voglia di potere, che pure c’è, ne la voglia di arricchirsi, che pure c’è, ne la soddisfazione sessuale, desideri che pure ci sono; quello che veramente è importante per l’essere umano, è essere capito per quello che è. Questo è verissimo, ma non viene quasi mai capito. Allora da qui partono le esplosioni, per cui uno ne combina di tutti i colori e più ne fa più si accorge che gli altri non capiscono.
- E più aumentano i suoi problemi esistenziali.
- Ad esempio in una coppia, qual è l’andamento normale del giorno per giorno in cui è ipocrita tutto, non si dicono niente dell’essenziale, sono finti su tutto, i sentimenti e la sessualità. Ad un certo punto però, se una persona veramente sente, comincia a fare quelle cose che si dicono strane, per richiamare l’attenzione che con le vie di tutti i giorni non si trovano e si mette in un guaio da cui non esce più, perché allora è finita. E’ questo il nocciolo. Noi abbiamo bisogno di essere riconosciuti per quello che siamo, ma non si è quasi mai riconosciuti per questo. A volte si sopporta la situazione e quando non si sopporta si finisce per mettersi nei guai, perché in fondo il problema è quello. Non lo stare male o bene, perchè è meglio essere tristi in due, che essere allegri da soli. Perchè il problema, di essere riconosciuti per quello che si è, è il problema essenziale, su questo nasce tutto il discorso.
Il discorso degli psichiatri è invece un discorso puramente esteriore, è un problema poliziesco.
- Durante il periodo di ricovero gli psichiatri parlano raramente con i pazienti e non entrano veramente in comunicazione, fanno dei test e cercano di incasellare la persona in una codifica nosologica.
- I test sono stupidi. Un inventore di test psicologici, Binet, ha scritto anche dei libri, in uno dei quali vuole dimostrare la pazzia di Gesù, dicendo cose come questa: che lui era cresciuto male non sapendo chi era il babbo. Lo lessi in un libro scritto da Messori, un cattolico famoso, che è stato amico di papa Giovanni Paolo II, che protestava contro Binet perchè giudicava Gesù un matto. Poi sono andato a controllare e ho visto che riportava questi argomenti psicanalitici su Gesù. Binet è un famoso psichiatra francese, un luminare. I test sono una scusa per non comunicare.
- Infatti nei test ci sono quesiti che sono anonimi, non hanno niente a che fare con il problema reale della persona, che nessuno aiuta a risolvere.
- E non hanno nessun significato. E’ il carattere moralistico e inquisitoriale del loro atteggiamento.
Trovo poi che ogni persona ha il diritto di parlare di se stessa con chi vuole e quando vuole. Qui faccio una critica al metodo della psicologia o della psicanalisi. Il fatto che uno debba andare da un’altra persona e tirare fuori tutto quello che ha pensato, sentito e vissuto, è una cosa che io trovo già una forma di dipendenza dagli altri.
Certamente è diverso se uno di sua volontà si sceglie uno psicanalista per andare a parlarci o se viene preso con la forza; c’è una differenza sostanziale. Però io non andrei mai da nessun’psicanalista a parlare degli affari miei, assolutamente, e le persone che vengono da me per aiuto, io li aiuto più che altro a non farsi incastrare dagli psichiatri. Però io non mi ritengo in dovere di chiedere loro cosa pensano e perché. Dirò di più. A me non importava nulla di quello che pensavano le persone in manicomio, a me interessava liberarle dal manicomio. Potevano pensare quello che volevano perché avevano diritto di pensare quello che credevano. Parlavo con loro dei loro problemi solo quando loro me lo chiedevano. Il mio problema non era quello di costringere le persone a pensare ad altre cose, ma era quello di liberarli dalla schiavitù. Poi uno può pensare quello che gli pare e ne ha diritto.
Noi siamo in una società in cui anche gli scrittori sono inquinati da questo, nel senso che sembra necessario dire tutto quello che si sente e si pensa. Si ha anche il diritto di non dire quello che si pensa e si sente. O di dirlo a chi piace a noi. Se è vero che quando si vuole comunicare non ci ascoltano, è anche vero che ci vogliono far dire delle cose che riguardano noi e che noi non vogliamo dire.
- Magari, per nascondere dei fatti intimi, per eludere le insistenze, si dice qualcos’altro per nascondere, tanto per accontentare la curiosità altrui. Poi anche queste cose vengono valutate e scritte nella cartella clinica e lo psichiatra magari ne parla con il collega o con il parente.
- In una parola, nemmeno la psicologia e la psicanalisi si preoccupano di risolvere i problemi. Se uno fa qualcosa di socialmente non accettato, lo psicanalista si preoccupa di metterlo in condizione di non farlo. Non si preoccupa di capire, ma di controllare, questo è il punto. Per cui non si tratta dello stare bene o male, e nemmeno di comunicazione, ma di controllo. Io non andrei mai a parlare allo psicologo della mia vita sessuale, perché lui non farebbe altro che giudicarmi e mettermi sotto controllo.
Se una persona cerca di comunicare attraverso vie nuove, perché non ha mai potuto comunicare, si mette sempre più nei guai. C’è anche il caso famoso di quella giovane ragazza che fu costretta ad andare da Freud. E’ un caso famoso. Aveva avuto delle proposte dall’amico del padre. Il padre aveva una relazione con la moglie dell’amico, per cui il padre chiudeva un occhio se l’amico faceva la corte alla figlia. Freud disse che era nevrotica la ragazza.
- Perché era amico del padre.
- No, non perchè era amico, ma perchè lo psicologo è dalla parte del più forte contro i più deboli. Freud, invece di dire che la donna aveva delle sofferenze, perchè l’amico del padre cercava di sedurla e lei non poteva difendersi, diceva invece che era nevrotica. Avrebbe invece dovuto dire che era vittima di due uomini, che facevano i loro interessi. Ma se Freud avesse detto così, avrebbe fatto veramente una rivoluzione del pensiero, cosa che non aveva fatto.
- Non ne aveva avuto il coraggio?
- Non so se gli era mancato il coraggio, ad ogni modo Freud aveva capito il problema. Aveva capito che se uno andava da lui e diceva di avere dei problemi psicologici diceva: io faccio il biografo, non il medico. Se fosse andato fino in fondo avrebbe probabilmente fatto quella rivoluzione che poi ha fatto Szasz.
Quello che non risulta chiaro e che invece dovrebbe esserlo, è la terribile mistificazione, che gli psichiatri, che sono dei controllori sociali, si fanno passare per persone preoccupate della salute degli altri. Non hanno nulla a che vedere con i medici, che su richiesta dovrebbero dare il loro parere. Sono invece delle persone che controllano la società, infatti hanno la polizia a loro disposizione.
- Tutta la società diventa così una società sotto controllo, perché ognuno deve avere paura di intraprendere qualsiasi tipo di strada diversa, di conoscenza diversa.
- Questo lo dico anche per esperienza diretta, che non ti riconoscono più neppure in famiglia se poni il problema in modo nuovo. Fanno finta di non capire e chiudono il cervello. Infatti, io spesso devo avere una pazienza enorme, perché quando si fanno i dibattiti devo giustificarmi io, che ho preso le persone con la camicia di forza e le ho portate al Parlamento Europeo, e non si devono giustificare quelli che li rinchiudono qui a Santa Maria Nuova. Sono io che devo convincere, sono io in discussione. Io ho liberato le persone ma sono in discussione e sotto critica, e non lo sono quelli che li hanno rinchiusi.
Anche in manicomio ho avuto delle difficoltà perchè l’ideologia della psichiatria non era solo quella degli psichiatri, degli infermieri, degli amministratori e dei magistrati, ma anche quella delle vittime. Nella nostra società può succedere che lo schiavo è contento di essere schiavo, perché ha assorbito l’ideologia del padrone, come gli operai che hanno votato Hitler.
- La pedofilia finisce spesso in primo piano sui media, potresti sviluppare questo tema, di volta in volta tabù oppure sfruttato dal potere per terrorizzare?
- E’ un tema sfruttato anche per ricattare. Si usa la parola pedofilia, ma pedofilia significa desiderio verso persone più giovani. Questo desiderio possiamo averlo tutti, il desiderio però non deve essere messo sotto processo. Ci sono certi atteggiamenti religiosi, per i quali anche il pensiero è un peccato, queste sono cose a cui non ci si può sottomettere.
Il problema vero da discutere è la violenza sessuale. Questo è un problema giuridico. Nel senso che se io sottometto una persona a violenza sessuale, devo andare incontro a provvedimenti giuridici. Non si deve arrivare a proporre la castrazione, perché la castrazione è la conseguenza del fatto che si considera non normale uno che desidera persone molto giovani, quindi se non è normale, si deve intervenire sul suo organismo. E’ sbagliato, perché il desiderio gli rimane lo stesso. Inoltre non è un problema di violenza sui minori, ma è il problema della violenza in generale. Si possono fare violenze ai minori o alle persone mature in tanti modi. Una di queste violenze è la violenza sessuale, ma ci sono anche altri tipi di violenza. Questo è un problema giuridico. Una società organizzata dovrebbe proporsi il fine di impedire che si facciano danni agli altri. La psichiatria e la psicologia non c’entrano nulla, si tratta di affrontare il problema giuridico.
Facendo il paragone con un altro campo: chi dà fuoco a un bosco sarebbe un piromane e il piromane sarebbe uno che ha voglia di vedere il fuoco. Ma chi dà fuoco al bosco, lo fa per degli interessi precisi.
Nessuno da fuoco a un bosco per un piacere estetico, lo fanno perché hanno degli scopi.
Tutto il linguaggio psicologico e psichiatrico distoglie dalla comprensione del problema. Non c’è solo il fatto negativo che se uno capita nelle mani di uno psichiatra lo distruggono, ma la cultura è completamente alterata da questo modo di discutere, perché nel momento che io uso questa parola, non mi chiedo le ragioni vere.
Quando, ritornando a Hitler, io voglio sapere perché nella cultura tedesca del ventesimo secolo c’è stato Hitler e ha avuto successo e perché è stato sconfitto…
- Perché la Deutsche Bundesbank gli ha dato 5000 marchi-oro…
- Questo a livello economico, poi a livello strutturale e culturale Hitler non ha inventato niente. L’antisemitismo risale al cristianesimo, dove esiste già l’antisemitismo, perché da una parte dicono che Cristo è stato ucciso dai romani – la crocifissione era uno strumento usato dai romani per uccidere gli schiavi – perché qualcuno aveva insinuato che Cristo era uno che si rivoltava, e di fatto poteva essere così. I sacerdoti cattolici sono stati d’accordo con i roghi degli eretici. Cristo era un eretico ucciso dai romani. Allora cosa fa il cristianesimo? Siccome devono ingraziarsi Roma, perché Roma adotta il cristianesimo, danno tutta la colpa ai sacerdoti ebrei.
Non si deve dimenticare che Hitler era pagato come arma contro il comunismo, allora sia la banca tedesca che la Krupp lo pagavano, e quindi non si tratta di follia, ma vuol dire che difendeva i propri interessi.
Così, quando in televisione chiamano le persone che appiccano il fuoco piromani, coprono degli interessi della mafia o degli speculatori. Si contraddicono quando poi viene fuori che ci sono degli interessi dietro, quindi non si tratta di un piromane che ama la fiamma, ma di qualcuno che viene mandato lì.
- Adesso si parla di nazismo come di una grande ingiustizia, ma tante persone con cui parlo trova giusta la guerra dell’Iraq. Secondo me sono indotte dalla televisione a pensare in un certo modo.
- Conviene anche, pensare in un certo modo, perché essere conformisti è legato a delle convenienze, a essere controcorrente si rischia. Qualcuno dice che la distruzione perpetrata dai governanti del mondo, come le guerre e il buco nell’ozono per esempio, è follia. Si tratta invece del perseguimento dei propri interessi; distruggono gli altri, e non per follia. Follia è un termine che significa fare le cose senza sapere quello che si fa.
La mescolanza dei linguaggi non chiarisce le idee. La medicina è una cosa, la politica un’altra. Follia etimologicamente vuol dire girare a vuoto. Dire che Hitler era pazzo serve a confondere le idee e togliersi le responsabilità. Semmai ci si deve chiedere che complicità abbiamo con Hitler.
- Taluni, come alternativa al concetto di malattia mentale, usano giri di parole come “uno che ha problemi”, “ha problemi psichici”, “sta male” o “soffre”.
- E’ quel discorso che ho fatto fin dall’inizio. Cosa s’intende dire per stare male? Si usa una parola per intenderne un’altra. Se ti dico che “sto male”, perché vorrei essere più libero di quello che sono, tu non pensi che sono un malato di mente, perché uso la parola “male”, nel senso vero. Ma se loro dicono “sta male” o “hanno la sofferenza col cervello”, ritornano nello stesso errore, parlando in termini mascherati. Allora preferisco Cassano, che mi dice: “quello è malato di mente e gli faccio l’elettroshock, così sta meglio”, rispetto a quello che mi parla di problemi psichici. Secondo lui ci sono i malati di mente e i sani di mente, e i malati di mente si curano così, e questo è chiaro.  Ma quelli, dicono e non dicono. O si è da una parte o dall’altra, capire a metà non esiste.
- Anche perché è difficile non lasciarsi incastrare.
- E’ come stare sulle sabbie mobili.
- Alcuni miei amici, anche se sono molto lucidi e hanno capito di essere stati incastrati dalla psichiatria, alla fine non sanno come fare a uscirne.
- Van Gogh si è sparato, perché non sapeva come uscirne fuori. Non che Van Gogh avesse bisogno di più intelligenza.
- Anche Antonin Artaud è morto in seguito alla psichiatrizzazione, ma erano forse tempi diversi...
- Non erano tanto diversi, anzi, sotto certi aspetti era meglio di ora, perché ora la psichiatria è molto più diramata, arricchita di concetti di psicologia, è più facile di allora andare in manicomio ora. Van Gogh si è sparato perchè gli avevano tolto tutto, l’autonomia, la fiducia in se stesso, l’indipendenza, l’avevano squalificato. Così si è sparato. Non c’è da meravigliarsi se le persone non sanno come uscirne fuori. C’è da meravigliarsi del contrario. Meraviglia chi ne esce fuori e deve andare incontro al fatto di essere considerato diversamente.
Ci sono persone che a volte hanno un atteggiamento, anche con le persone di cui si occupano, come se avessero capito di più. Il problema non è aver capito di più, ma la condizione in cui uno si trova. Non ho capito di più, ma mi sono trovato in una situazione diversa, perché se io fossi preso e messo in una clinica psichiatrica, sarebbe una brutta faccenda anche per me. D’altra parte lo farebbero anche volentieri. Per cui è questione del contesto, non di come è la persona. La persona, prima di andare in clinica psichiatrica e dopo esserne uscita è la stessa, salvo che ha fatto un’esperienza negativa e ha addosso un pregiudizio sociale. Fare capire questo fino in fondo è difficile. Da parte mia mi sembra naturale lottare contro la psichiatria.


[1] Dacia Maraini, “La conversazione” e “La festa”, in La Stampa, 26.7.1978, 29 e 30.12.1978 e in Giorgio Antonucci, I pregiudizi e la conoscenza. Critica alla psichiatria, Roma, Cooperativa Apache, 1986, p. 285 sg.
[2] Giorgio Antonucci, I pregiudizi e la conoscenza. Critica alla psichiatria, Roma, Cooperativa Apache, 1986, p. 16.
[3] Giuseppe Gozzini, “Introduzione”, pp. 13 – 18, in Giorgio Antonucci, Il pregiudizio psichiatrico, Milano, Elèuthera, 1998, p. 17.
[4] Eugenia Omodei Zorini, “Recensione a Diario dal manicomio. Riflessioni e pensieri”, in “Psicoterapia e scienze umane”, Franco-Angeli, volume XLIII, n. 1, 2009, pp. 116-119.
[5] La conversazione che segue è stata realizzata in tre momenti diversi, nel febbraio 2004, giugno 2006 e luglio 2007.

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