martedì 3 gennaio 2017

Question Man - L'uomo domanda - by Irit Shimrat



Eoni fa, quando avevo 25 anni, l’unica ambizione che avevo era quella di uccidermi. Nonostante fossi riuscita ad accumulare tutti i segni del successo esteriore – un lavoro, un appartamento, un compagno – ero paralizzata dalla miseria. Non riuscivo a superare il fatto che qualche anno prima ero stata psichiatrizzata quasi a morte.

Non credevo nella psicoterapia, ma, disperata, mi ero messa nelle mani di un tipo anziano e molto dolce che praticava la “programmazione neurolinguistica”. Quasi sempre cercava di farmi andare in trance, ma non ci riusciva. Una volta mi ha messo a testa in giù, prendendomi per le caviglie e usando un’imbracatura sospesa dal ramo di un albero; mi aveva assicurato che oscillare avanti e indietro dolcemente, avrebbe corretto il mio respiro e i miei problemi psicologici sarebbero miracolosamente evaporati. Un’altra volta mi aveva lasciato fumare uno spinello nel suo studio, con la sua amica infermiera che mi osservava e prendeva appunti. Ho apprezzato il tempo e gli sforzi considerevoli che ha impiegato nel tentativo di aiutarmi, però non mi hanno fatto per niente bene.

Guardando indietro, l’unica cosa che poteva aver avuto qualche senso era chiedermi:

“Come faresti a capire di stare bene?

Senza esitazione ho risposto: “Starei scrivendo.

Mi hanno insegnato a scrivere prima di iniziare la scuola. A sei anni ho sfornato libretti che trattavano di principesse, animali e tutto ciò che riguarda una bambina di sei anni.




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Poi ho scritto storie, poesie, ho disegnato fumetti, sovente proprio quando ci si aspettava da me che prestassi attenzione alla lezione di scienze, storia o matematica. Quando ero una teenager ho scritto poesie complesse e tuttora  penso siano veramente buone! Questo succedeva prima che il mio cervello venisse rivoltato dagli psicofarmaci.
Quando avevo 20 anni ed ero rinchiusa nel mio primo reparto psichiatrico, ci sono voluti tutti i miei sforzi e tutta la mia concentrazione per produrre questo:
            Non mi è permesso questo
            Non mi è permesso quello
            E ci si sorprende
            se sto diventando pazza?

Era il 1978 ed ero rinchiusa da mesi al North York Branson Hospital. Tenevo questo quaderno in cui scrivevo e disegnavo nel miglior modo possibile. Che non era un granché, a causa di tutto quel Haldol che mi facevano prendere.
Non ho memoria di come mi sono ispirata a creare il mio primo eroe dei fumetti. L’Uomo Domanda.
L’Uomo Domanda mi ha fatto da migliore amico e da alter ego, aiutandomi a superare le lunghe giornate vuote del reparto psichiatrico. Non era disegnato bene e non era nemmeno troppo intelligente, ma in qualche modo mi andava bene lo stesso.








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Barcollavo attraverso le giornate in un imbarazzante stato di confusione, mi perdevo nel reparto nonostante la sua struttura semplice. Entravo al bagno con lo spazzolino in mano e non mi ricordavo che cosa stavo facendo lì. L’impossibilità ad orientarmi, a riuscire a tenere a mente un compito anche semplice abbastanza a lungo da completarlo, era bruttissimo.
Ma quando l’Uomo Domanda era confuso, era quasi delizioso. Mi sentivo debilitata e stupida, mentalmente e fisicamente. Non riuscivo a capire come questa cosa così terribile stesse accadendo a me – come fossi arrivata a vivere in questo posto orribile. Pensavo fosse colpa mia. Volevo gridarmi contro per come i pensieri continuavano a sciogliersi nella mia testa.

Ma l’Uomo Domanda poteva giocare con queste idee invece di autoaccusarsi.

Non avevo idea di come uscire dal profondo buco in cui ero caduta, questa incapacità di essere normale, di star bene – di essere a malapena capace di scrivere.

Dentro di me, lo smarrimento era terrificante. Nell’Uomo Domanda ispirava affetto.

Non capivo come potessi essere completamente tagliata fuori dalla mia famiglia, dai miei antenati. Nessuno di loro era mai stato pazzo, per quanto ne sapessi. Perché tutti gli altri avevano una testa vera, con dentro un cervello funzionante, mentre tutto quello che avevo io al posto della testa era questo palloncino malfermo, riempito con uno strano, pesante elio del colore del Haldol?








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Barcollavo attraverso le giornate in un imbarazzante stato di confusione, mi perdevo nel reparto nonostante la sua struttura semplice. Entravo al bagno con lo spazzolino in mano e non mi ricordavo che cosa stavo facendo lì. L’impossibilità ad orientarmi, a riuscire a tenere a mente un compito anche semplice abbastanza a lungo da completarlo, era bruttissimo.
Ma quando l’Uomo Domanda era confuso, era quasi delizioso. Mi sentivo debilitata e stupida, mentalmente e fisicamente. Non riuscivo a capire come questa cosa così terribile stesse accadendo a me – come fossi arrivata a vivere in questo posto orribile. Pensavo fosse colpa mia. Volevo gridarmi contro per come i pensieri continuavano a sciogliersi nella mia testa.
Ma l’Uomo Domanda poteva giocare con queste idee invece di autoaccusarsi.
Non avevo idea di come uscire dal profondo buco in cui ero caduta, questa incapacità di essere normale, di star bene – di essere a malapena capace di scrivere.
Dentro di me, lo smarrimento era terrificante. Nell’Uomo Domanda ispirava affetto.
Non capivo come potessi essere completamente tagliata fuori dalla mia famiglia, dai miei antenati. Nessuno di loro era mai stato pazzo, per quanto ne sapessi. Perché tutti gli altri avevano una testa vera, con dentro un cervello funzionante, mentre tutto quello che avevo io al posto della testa era questo palloncino malfermo, riempito con uno strano, pesante elio del colore del Haldol?





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In me, questo era ripugnante. Nell’Uomo Domanda, era in qualche modo divertentissimo.
Io ero vergognosamente debole. L’Uomo Domanda invece era debole in modo commovente. La mia coordinazione era incredibilmente assente. Inciampavo in giro in un mondo che non aveva alcun senso. Nel reparto, non c’era nulla di minimamente divertente a riguardo. Nel mio quaderno però, avevo l’Uomo Domanda che inciampava su un gatto.
Odiavo me stessa e mi faceva male. Principalmente, volevo morire, e non riuscivo nemmeno a fare questo.
Riversavo nell’Uomo Domanda tutto quello che mi rimaneva della mia creatività, della speranza, dell’amore dell’umanità e del desiderio di vivere.
Alla fine ne sono uscita, facendo finta di essere d’accordo con quello che i miei sorveglianti pensavano ci fosse di sbagliato in me, rassicurandoli che non avrei mollato le mie “medicine”. Che, ovviamente, non ho fatto.
E alla fine mi sono fatta una vita.
Ho dimenticato tutto dell’Uomo Domanda; è stato decenni dopo che ho ritrovato, in una scatola i fogli ingialliti del quaderno su cui l’avevo disegnato. La mia reazione al nostro re-incontro? Sorpresa, divertimento, e un misto di amore, pietà e ammirazione per la giovane me stessa psichiatrizzata.

Traduzione in italiano a cura di Marta



 published in The Stanza Project (Otter Press 2013)












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