giovedì 10 settembre 2015

A Child on the Shock Ward / Un bambino nel Reparto dello Shock by TED CHABASINSKI, J.D.










Avevo sei anni, e così, infine, tutti i sintomi della mia presunta malattia mentale, come giocare nel cortile sul retro dove facevo torte di fango e scappavo dai bimbi più grandi di me quando mi minacciavano, come raccogliere fiori nel giardino del nostro vicino e fare la lotta con la mia sorellina e soprattutto, essere nato da una madre pazza, sono arrivati ad un punto cruciale. Ero quindi ufficialmente schizofrenico, con la dimostrazione che la malattia l’avevo ereditata.


La signorina Callaghan dichiarò che dovevo essere messo nell’Ospedale Bellevue, per diventare un animale da esperimenti per la dottoressa Lauretta Bender, che era una dei più importanti psichiatri infantili di quel tempo, e che aveva bisogno di bambini in affidamento, per sperimentare l’elettroshock su di noi.
Doveva essere interessante vedere cosa poteva succedere!
Il servizio di tutela dei minori che avrebbe dovuto proteggermi era felice di fornirle i bambini.
Non ricordo nulla di come sono arrivato lì e molto poco di quello che ho realmente vissuto in quel periodo. Ma, cosa molto insolita per una vittima di elettroshock, ho alcuni ricordi; ricordi di eventi che si sono verificati più e più volte.
Ora, molti anni dopo, scrivendo da adulto, posso solo immaginare tutto il terrore che devo aver provato quando sono stato strappato dai miei genitori adottivi. Ma forse è per pietà che non riesca a ricordare.
Al Bellevue ho dormito in quello che mi sembrava, piccolo com’ero, un gigantesco corridoio freddo, dove di notte echeggiavano rumori strani e spaventosi, con un soffitto alto come il cielo. Anche le finestre arrivavano fino al soffitto, ma non erano state pulite da molti anni e il corridoio era sempre buio, anche durante il giorno, anche quando fuori splendeva il sole. Il mio letto, corredato da un duro materasso sporco che puzzava tremendamente e una coperta verde oliva, era tutto solo nel corridoio.
Non sapevo perché ero stato tenuto da solo nel corridoio. Avrei voluto stare  con gli altri ragazzi del reparto. Ricordo vagamente che era stato detto che il reparto non aveva abbastanza spazio, ma perché non avevano messo qualche altro ragazzo là fuori, così avrei avuto qualcuno con cui parlare?
Non c'era nessuno che mi sentiva piangere, ma poteva essere meglio così, perché avevano detto che il mio pianto era un sintomo della mia malattia, e forse se avessi continuato a piangere, sarei rimasto lì per il resto della mia vita.
Non c'era nessuno di notte, a sentirmi urlare quando l'uomo veniva a violentarmi.
A volte la dottoressa Bender appariva durante il giorno, arrivava passando dalla porta dell'ascensore al centro del corridoio, circondata dai suoi protettori, molti assistenti che sembravano adorarla, o forse avevano solo paura di lei, come anch’io. A volte passava molto vicino a me, mi guardava, ma non mi riconosceva, come se io non esistessi.
Ed era freddo, tanto freddo. Era l’inverno di New York City, e avevo solo una coperta, anche se a volte gli assistenti più gentili avrebbero voluto metterne un’altra sul mio letto. Ma sembrava sempre che scomparissero. Mi svegliavo rabbrividendo, ma non trovavo alcuna posizione che mi avrebbe tenuto al caldo.
Pensavo a casa mia, ai miei genitori e alla mia sorellina, e alle simpatiche insegnanti che ho avuto a scuola, e mi chiedevo se li avrei mai visti di nuovo. A volte, appena dopo gli elettroshock, era molto difficile ricordare casa mia e tutto quello che sapevo era il mondo che conoscevo in quel momento, gli elettroshock  e la solitudine e il freddo.

Avrei voluto che avesse un termine e volevo morire.
Segui, segui, segui dolcemente in barca la corrente.
Stai allegro, stai allegro, la vita è un sogno solamente…
Quasi tutte le mattine, tutti i ragazzi marciavano verso l'altro lato del corridoio, nel reparto delle ragazze. Là dovevamo cantare e mostrare quanto eravamo felici e normali, ma io non l’ho quasi mai fatto. Gli assistenti facevano pressione per farmi cantare, dicendomi come il non cantare fosse un segno della mia malattia, e avrei dovuto cantare se volevo stare meglio.
Le mattine in cui dovevo essere sottoposto agli elettroshock, non mi davano la colazione, così sapevo cosa sarebbe successo. Quelle mattine, mentre gli altri bambini cantavano obbedienti, avrei voluto piangere senza fermarmi.
Presto si sarebbero fatti vivi tre assistenti e avrebbero iniziato a trascinarmi giù per il corridoio, verso una stanza vicino alla corsia dei ragazzi, dove facevano gli elettroshock. Avevano imparato a fornire un sacco di personale, perché quando lottavo così duramente, era impossibile per una sola persona controllarmi.
"Non voglio andare all’elettroshock, non lo farò!" Prendevo a calci, cercavo di mordere i miei rapitori, cercavo di sfuggire alla loro presa. Ma mi trascinavano lungo il corridoio e mi buttavano violentemente sul tavolo dell’elettroshock, dove in molti di loro mi tenevano giù. Mi ficcavano uno straccio in bocca e giù per la gola, facendomi soffocare.
E quella era l'ultima cosa che ricordavo, fino a quando mi svegliavo in una stanza buia da qualche parte. Spesso mi svegliavo nella stessa stanza con Stanley, un ragazzo molto grande di circa tredici anni. Ero terrorizzato da Stanley, anche se non so perché. Qualunque poteva essere stata la ragione, si perde nel buco nero che lo shock aveva creato.
Avevo imparato a cercare di memorizzare il mio nome, a concentrarmi sul mio nome, così che dopo lo shock me lo sarei ricordato. Teddy, io sono Teddy, io sono qui in questa stanza, in ospedale. E la mia mamma è andata ... Vorrei piangere e rendermi conto quanto ero stordito. Il mondo roteava intorno e tornarvi faceva troppo male.
Voglio scendere, voglio andare dove l’elettroshock mi manda, non posso più combattere e voglio morire ... e qualcosa mi ha fatto continuare a vivere, e per vivere dovevo ricordarmi di non lasciare che nessuno si avvicinasse più a me.
L'uomo è venuto al mio letto, il mio isolato piccolo letto nel grande corridoio, e ha afferrato la mia testa e costretto la mia bocca contro il suo pene. Poi ha tolto la mia camicia da notte ospedaliera e ha cercato di girarmi. Ho lottato, e lui mi ha afferrato e mi ha sbattuto giù, colpendo la testa contro il telaio del letto, fino a stordirmi ....
Il mio fondoschiena mi faceva male tutto il tempo e mi sanguinava. Avevo un gusto terribile in bocca che non era davvero lì, ma non se ne andava mai via.
Mio padre era venuto a farmi visita e gli dissi quello che l'uomo mi stava facendo.
Piangevo, come facevo quasi sempre.
"Papà, ti prego, fallo smettere. Non lasciare che mi faccia questo."
Mio padre sembrava molto turbato.
"Ne parlerò con il medico."

Mi ha di nuovo fatto visita.
"Teddy, hai immaginato tutto. Il dottore dice che hai immaginato tutto."
L’ho immaginato. Mio padre dice che l’ho immaginato.
Mio padre non si preoccupa di quello che mi succede.
Voglio morire.
Quasi ogni sera l'uomo veniva al mio letto nel grande corridoio e mi violentava. Poi si è fermato.
E poi una notte ho sentito una bambina, le cui urla attraversarono il grande corridoio. Ho riconosciuto la sua voce. Era una bella bambina della mia età, che mi è capitato di vedere nella corsia delle ragazze. Anche a lei facevano gli elettroshock, perché nei giorni in cui non mi davano la prima colazione, non la davano nemmeno a lei. Come me, nemmeno lei cantava, non cantava e non celebrava la nostra infanzia felice, come avremmo dovuto fare. Lei era molto più colpita di me dagli elettroshock e non disse quasi mai nulla, si limitava a sorridere con aria assente.
Doveva essere il suo letto che ho visto nel corridoio, quando ci portavano nel reparto delle ragazze a cantare e festeggiare.
La sentivo quasi ogni notte nel sonno e mi svegliavo, anche se durante il periodo degli elettroshock, non ero mai né completamente sveglio, né completamente addormentato.
E anche adesso, tanti anni dopo, a volte viene da me nei miei sogni, la bella bambina che grida di terrore e di dolore.
E così, nel maggio del 1944, dopo essere stato violentato e ucciso più e più volte, finalmente sono stato rilasciato dal Bellevue. Il ragazzino che era stato portato lì per essere torturato non esisteva più. Tutto ciò che restava di lui, erano un paio di frammenti di memoria e uno spirito rotto, e il resto erano ceneri in un gigantesco pozzo buio, mescolate con le ceneri di centinaia di altri bambini che erano stati torturati e bruciati vivi dalla dottoressa Bender, un leader nella sua professione.
E’ stato due mesi dopo il mio settimo compleanno, ma non mi ricordo il mio compleanno. Non mi ricordo nulla dei mesi successivi, ma alla fine mi sono ritrovato a casa mia nel Bronx, mentre cercavo di ricordare chi ero.
Adesso ero così terrorizzato che mi aggrappavo a mia madre e avevo paura di uscire per un po’.
Infine, ho preso il mio triciclo e ho percorso tutto il quartiere, molto fiducioso, come avevo sempre fatto, perché conoscevo ogni isolato. Ma improvvisamente mi resi conto che non sapevo dove mi trovavo, e fui preso dal panico. In qualche modo un vicino di casa gentile mi portò a casa, ma avevo paura di condurre di nuovo il mio triciclo. Di solito avevo un senso di libertà, mi sentivo grande e avrei potuto andare con il triciclo ovunque, ma questo ora era sparito.
Un bambino di nome Karl, circa della mia età, è venuto a casa nostra a farmi visita. Mi hanno detto che abitava molto vicino a noi, all’angolo a sole due case di distanza. E mi è stato detto che era stato il mio migliore amico, ma non sapevo più chi fosse.
La signorina Callaghan disse che la mia perdita di memoria era un pessimo segno. Significava che non stavo meglio.
Ted Chabasinski, J.D.
Ancora Pazzo Dopo Tutti Questi Anni: Ted Chabasinski, ora avvocato per i diritti dei pazienti, è stato portato via dai suoi genitori quando aveva sei anni, hanno sperimentato su di lui l’elettroshock, e poi inviato ad un ospedale statale per il resto della la sua infanzia. Scrive sul potere della psichiatria e dei suoi abusi, soprattutto nei confronti dei bambini.

traduzione di Erveda Sansi


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