mercoledì 19 aprile 2017

Franco Basaglia - Trascrizione di un corso per operatori


Noi la vediamo come Giorgio Antonucci, e cioè la psichiatria è una mentalità e non un edificio e in quanto tale va abolita, e questo corso/dibattito mostra quanto poco sia stato applicato e fatto proprio, di quanto sia rimasta lettera morta, ciò che si discuteva negli anni '70:

CORSO DI AGGIORNAMENTO PER OPERATORI PSICHIATRICI

Trascrizione di due lezioni/conversazioni di Franco Basaglia con gli infermieri di Trieste, lezioni intervallate da un dibattito - 1979 

Quando abbiamo cominciato a parlare di questo corso di formazione per gli infermieri, ho detto delle cose che mi sono state rimproverate poi dagli operatori. Ho detto che non è un caso che la scuola degli infermieri, cioè il suo inizio, coincida con la fine della mia gestione triestina. L’interpretazione di alcuni medici di queste parole è che la storia è finita e oggi comincia la storiografia. Fino ad ora si è cambiato, si è trasformato e oggi comincia la razionalizzazione del cambiamento; in altre parole, da questo momento non avverrà niente di nuovo perché ciò che di nuovo è avvenuto a Trieste, è avvenuto con me: oggi comincia la razionalizzazione, si comincia ad edificare, ad abbellire la casa che si è cambiata.
Io non sono affatto d’accordo con questa affermazione; penso che ciò non è assolutamente vero perché se trasformazione c’è stata qui a Trieste, questo non è dipeso da me ma dallo sforzo partito da tutti, dagli infermieri, dai medici, ma soprattutto, direi, dalla forza operante dei degenti, dei pazienti, dei "matti", di quelli che oggi chiamiamo "utenti"; perché se non ci fosse stata questa forza trasformatrice nella gente che noi abbiamo curato, nelle persone che venivano a domandare aiuto, noi non avremmo cambiato niente, non avremmo fatto storia.

Penso che l’ulteriore organizzazione che noi possiamo dare ai servizi triestini sarà ulteriormente storia, perché noi dobbiamo dimostrare che dei servizi trasformati possono dare una risposta ai bisogni della gente. Come questo avvenga è ancora poco chiaro e il fatto di essere qui a parlare serve a chiarirci su cosa abbiamo fatto. Anche perché penso che noi docenti a questo corso non possiamo insegnare qualcosa a voi infermieri ma penso sia necessario piuttosto chiarire ciò che è avvenuto in questi anni perché noi stessi, tecnici del vertice, non lo comprendiamo bene, non comprendiamo per quale ragione prima c’erano mille persone in ospedale e oggi non ci sono più; non comprendiamo come mai questa istituzione ha cambiato la sua cultura, i suoi limiti: come mai il manicomio che era chiuso e ben delimitato un tempo dalle sue mura, oggi non ci sia più e al suo posto ci sia tendenzialmente un nuovo tipo di rapporto tra chi ha bisogno e chi risponde ai bisogni, tra noi e gli utenti. Penso sia questo il mistero che circonda il nostro incontro e a cui dobbiamo dare una risposta per comprendere meglio cosa stiamo facendo.
Le definizioni di salute e malattia oggi appaiono molto diversificate da un tempo, come diversificato da un tempo il concetto di istituzione. Non siamo capaci di dare una definizione di salute e malattia se non criticandola definizione che avevamo imparato molti anni fa. Che la malattia o la salute sono rispettivamente lo squilibrio e l’equilibrio della situazione biologica o psicologica di una persona. E non abbiamo capito bene che cosa sia il concetto di istituzione perché lo vivevamo in un senso, oggi lo viviamo in un altro.
Ricordo che circa vent’anni fa quando questo lavoro di trasformazione era ai suoi inizi, sono andato in Inghilterra perché in quegli anni cominciava in quel paese una grossa opera di trasformazione sul programma istituzionale sanitario in generale e psichiatrico in particolare. Ho visitato molte di queste istituzioni e ho visto, a differenza delle nostre, che c’era un differente rapporto tra medico e malato: un rapporto più libero, meno coercitivo e ricordo che non riuscivo a capire il concetto di istituzione. Lo capivo sì, perché lo avevo studiato, ma il vissuto di istituzione che avevo sperimentato fino a quel momento, vivendo nelle istituzioni italiane, era molto differente dal concetto vissuto di istituzione quale vedevo nelle istituzioni inglesi e ho chiesto vergognandomi, ad un mio collega inglese: - Cosa vuol dire istituzione?- Lui non sapeva darmi una risposta, si meravigliava molto della mia scarsa eleganza concettuale, in quanto gli inglesi pensano che gli occidentali siano molto più concettuali, molto più precisi nelle definizioni, mentre loro sono molto pragmatici, e guardandomi mi rispose in maniera pragmatica: “L’istituzione”, - guardandosi intorno, “è questa”, indicandomi con le mani. Eravamo in una stanza di un manicomio. E così ho avuto l’illuminazione per cui ho capito che l’istituzione in quel momento eravamo noi due, l’istituzione, in quel posto che era il manicomio, e quindi ho cominciato a capire che tutti quei discorsi che noi facevamo in quel momento erano discorsi che aprivano o chiudevano quest’istituzione, che eravamo noi due.
Se noi facevamo dei discorsi di apertura, l’istituzione era una situazione aperta; se noi facevamo dei discorsi di chiusura l’istituzione era un’istituzione chiusa. Questo era il parlare, ma poi c’era anche il fare; cioè se il personale dell’istituzione la gestisce in maniera chiusa, mentalmente e praticamente, questa è un’istituzione chiusa; se fa il contrario è un’istituzione aperta. Ebbene nel ‘59, l’Inghilterra come primo paese tra i paesi occidentali inaugura quello viene chiamato il National Act: cioè determina la medicina come servizio nazionale per cui tutti hanno diritto ad usare i servizi nazionali medici senza pagare denaro, cioè pagando le tasse il cittadino ha la possibilità di essere curato gratuitamente. Questo vuol dire che lo stato s’interessa direttamente alla gestione dell’istituzione. Vuol dire che stato e istituzione in quel momento rappresentano una situazione che il cittadino può usare direttamente e quindi non è più una situazione privatizzata, non è più delegata la sua gestione ad altri privatamente, ma lo stato deve dare e assicurare, attraverso le sue istituzioni tutti i diritti di libertà che il cittadino deve avere.
Ecco perché, a questo punto, lo stato si accorge che, tra i suoi assistiti, anche i malati mentali non devono essere più chiusi, ma devono avere i diritti civili di tutti gli altri, cioè sono malati come tutti gli altri malati. Il malato mentale così può avere accesso informalmente alle istituzioni pubbliche. Informalmente nel senso di persona totalmente libera che viene preso in carico da un medico che ha trasformato la sua logica ghettizzante in una logica medica omologata a tutte le altre specialità mediche. Negli anni cui mi riferisco dopo il N.A. (1959) entra nella medicina inglese, un concetto molto importante che è il concetto della socialità, entra il sociale nella medicina, il sociale nella medicina psichiatrica. L’Inghilterra come primo paese nell’orbita occidentale inaugura quello che poi si chiamerà "Psichiatria sociale".
Entra il sociale nella malattia per cui la schizofrenia, la mania, l’isterismo ecc. non sono più etichette scientifiche, biologiche o psicologiche, ma etichette che vengono ad avere una pregnanza sociale molto forte per cui nell’analisi della schizofrenia noi possiamo vedere che lo schizofrenico non è tale in assoluto, ma schizofrenico in un ambiente particolare per cui il medico deve affrontare non solo il malato ma la socialità che lo circonda. Ecco come l’istituzione si apre, come l’istituzione apre i suoi battenti. Ecco come l’istituzione comincia a diffondersi al di là delle mura chiuse e comincia a perdere tutte le problematiche sociali, comincia a farsi sociale. Comincia a distruggere la sua istituzionalizzazione e comincia così a socializzarsi nel territorio; ma resta pur sempre istituzione perché quando il medico nel territorio o nell’istituzione aperta affronta il suo utente, comincia un discorso che avviene in un’istituzione e allora si ripropone quell’esempio che il mio collega inglese mi ha dato guardandosi intorno, in seno a questa o a quell’istituzione, perché l’istituzione viene ad essere il tutto, il niente. Questo è molto importante perché così s’inaugura un capitolo che porta ad una visione estremamente dialettica tra il dentro ed il fuori, dove il dentro non è riferito al dentro di un’istituzione chiusa, ma al dentro di noi; e il fuori al fuori di noi. In altre parole con l’inizio di questa logica il manicomio come "teatro della follia" scompare, e viene buttato fuori, scodellato nel territorio, tutto quello che c’è dentro il manicomio. Ciò fa vedere quanto di sociale c’era all’interno della malattia della persona: e quanto questa malattia è intrisa di rapporti mal vissuti, di situazioni che ripropongono continuamente quel che è il rapporto di oppressione tra le persone. In altre parole, l’apertura del manicomio evidenzia la mistificazione di un rapporto di norma e la creazione del manicomio di un’anormalità che viene ad essere l’anormalità dell’anormalità; vale a dire che è anormale perché non sta alla norma, e nel momento che entra nel manicomio chiuso diventa due volte anormale: anormale di un’anormalità costruita attorno alle mura del manicomio e quindi, nel momento che si leva almeno una di queste chiusure si ha l’altra chiusura della situazione tra una persona che ragiona bene e una persona che ragiona male. E qui è l’abilità di vivere questa nuova istituzione aperta, di vivere una situazione della quale non abbiamo la chiave, ma abbiamo invece il rischio di questo rapporto che è sempre aperto e che è nostra abilità tenerlo aperto e non chiuderlo. Direi che tutto questo si verifica e si è verificato in rapporti che non sono solo rapporti di manicomio, chiuso o aperto. Penso che lo abbiamo verificato tutti noi, vivendo questa situazione di apertura, per esempio nei nostri rapporti familiari. Lo so, perché avete cominciato con me, che voi avete vissuto delle gravi crisi familiari nel momento che vedevate che il vostro lavoro pratico era messo in discussione, nel momento che non potevate più essere in un rapporto autoritario coi malati, per esempio nel momento che questo rapporto chiuso si apriva nell’ospedale, nel momento che capivate che il malato aveva gli stessi diritti che avevate voi; nel momento che tornavate a casa avvertivate che vostro figlio aveva gli stessi diritti di libertà che avevate voi e molti dei limiti che voi avevate posto nella vostra famiglia erano totalmente falsi, erano di una norma falsa; allora siete entrati leggermente in crisi perché era la stessa crisi che vivevate nel lavoro.
Questa è l’evidenza di un’altra istituzione che è la famiglia, istituzione apparentemente aperta ma totalmente chiusa che si ripropone ad essere aperta quando l’istituzione del nostro lavoro si vede che non resiste più all’attacco dei tempi nuovi, del mondo che cambia, della trasformazione della nostra società che non può più stare nell’ambito troppo stretto o nella camicia troppo stretta, che ormai deve cambiarla in modo che sia conforme coi tempi. Non possiamo più obbligare il malato ai nostri voleri, non possiamo più obbligare i figli ai nostri voleri, comincia allora un tipo di rapporto dialettico tra due poli diversi: io che ho il potere e il malato che non ne ha. Io che ho il potere come padre e il figlio che non ne ha. Su questi due poli di rapporto gioca tutto il potere istituzionale della NORMA e dell’ANORMALITÁ, della salute e della malattia; allora mi pare che il discorso si faccia ancora più interessante perché il nostro compito è continuamente di scoprire che cosa è malattia e cos’è salute, perché una persona che viene da noi, un malato, è malato perché viene da noi. È importante la scoperta della malattia o meno? È questo il nostro compito: di essere dei bravi sanitari, o no? Perché è molto facile essere dietro ad un tavolo, aspettare che una persona venga lì e pensare, perché viene da noi "é necessariamente malato". Se viene da noi non è che sia malato. Può essere una persona che, presa nelle spire della sua situazione si ammala perché l’organizzazione nella quale vive non gli permette di vivere, allora sarà nel rapporto tra noi due che troveremo che troveremo una situazione che è al di là di questa domanda che viene a farmi; che lui è malato e io invece, medico, sono sano. Sarà nella dialettica di questa situazione che io potrò avere un rapporto diverso, nuovo con quella persona che è stata sempre catalogata istituzionalmente come malata. Aprire l’istituzione non è aprire la porta, è aprire la testa di fronte a questo "malato". Allora il discorso cambia, e quello che è istituzione chiusa in questo momento e che tra un’ora non lo è più, la stessa cosa è nel momento in cui io mi riferisco al concetto di salute e di malattia, evidentemente la trasformazione di una società che vuol essere sè stessa cambia perché si creano dei rapporti estremamente dinamici che difficilmente s’istituzionalizzano. Ebbene qui sta tutta la difficoltà di affrontare il discorso perché ci accorgiamo continuamente che tante cose che credevamo immutabili, eterne, date una volta per tutte, non lo sono, tutto il lavoro per esempio che è stato fatto a Trieste, ci ha portato a considerare che tutto il problema istituzionale chiuso com’era, catalogato in quel determinato modo, era una maniera di gestione della devianza che la nostra azione di liberazione in riferimento a questa problematica era di natura politica, che noi, cercando di liberare l’istituzione, di trasformarla, di scodellare questo insieme nel territorio, facevamo della politica. Ebbene noi siamo stati nel tempo tacciati di molte etichette perché la cosa importante era di istituzionalizzare la nostra azione di trasformazione; allora eravamo al contempo rivoluzionari, poi autonomi, poi brigate rosse: eravamo accusati di tutto. Direi che quello che noi eravamo è quello che siamo adesso cioè persone che non vogliono vivere costantemente dentro l’etichettamento di una situazione falsa, ma vogliamo vivere in una situazione che si rinnova anche perché, facendo il nostro mestiere ho l’impressione, abbiamo fatto una scoperta: è vero che noi abbiamo agito e abbiamo affermato di essere dei politici, ebbene, gli psichiatri sono sempre stati dei politici perché la gestione dell’istituzione chiusa era l’espressione di un tipo di controllo sociale che si esprimeva nella parte povera della popolazione di uno stato. I manicomi avevano come finalità non tanto quello di curare ma quello di controllare; penso che nessuno possa dire che questo non è vero, perché la gente che entrava nei manicomi difficilmente usciva, e,se usciva, usciva soltanto per essere rinormalizzata e rimessa in una catena di produzione finché non sbagliava un’altra volta e un’altra volta rimessa in ospedale. Per esempio, se noi pensiamo ad un malato, ad un deviante tipico quale è l’alcoolista, sappiamo che è sempre stata trattato dall’istituzione pubblica del Manicomio come una persona da controllare e non da curare. L’alcoolista è una persona che viene in ospedale perché disturba l’ordine pubblico, perché dal momento che beve e non è capace di controllare il proprio comportamento, è preso dalla Polizia e viene portato nel ghetto del manicomio o del carcere. Sappiamo anche che ci sono altre persone che bevono e che possono controllare la propria ubriacatura perché sono dentro le mura di una casa; quelle persone non finiscono in manicomio ma possono curarsi e si curano. Allora direi che ci sono due tipi di alcoolismo ed è l’alcoolismo dei poveri che entra nell’istituzione non tanto per essere curato ma per essere controllato. Perché cosa facevamo per queste persone che entravano in manicomio? Le chiudevamo dentro uno sgabuzzino, li punivamo in maniera che dopo un mese, quindici giorni uscivano, non bevevano per un mese poi bevevano un’altra volta e ritornavano in manicomio. E cos’è il ciclo produttivo del malato.
Cosa abbiamo fatto noi per aprire l’istituzione? Aprire l’istituzione non è aprire la porta, è aprire la testa di fronte a questo "malato". Direi che abbiamo cominciato a dare fiducia a queste persone sapendo che avrebbero bevuto ancora ma se non fossimo entrati nel rischio del rapporto con la persona, se noi non avessimo cominciato a considerare il nostro mestiere come un mestiere con dei rischi reali, io penso che l’istituzione sarebbe stata sempre chiusa, avrebbe avuto il lucchetto. Io so per esempio che molti di noi sono andati anche a bere con gli alcoolisti, si sono ubriacati con loro. Penso che questa azione che sembra assurda, è un’azione estremamente importante, estremamente terapeutica perché l’alcoolista ha visto che anche il suo medico, anche il suo infermiere può cadere nella stessa situazione in cui è lui, sono entrati tutti e due insieme nell’istituzione. Ebbene, si è cambiato il vissuto tra curato e curante perché il curato ha visto che il curante era nella stessa situazione. Questo è un grosso rischio, che è valso la pena correre per tutti. Noi abbiamo sempre corso un rischio molto grosso perché quando abbiamo dato la libertà al malato e il malato è andato per la strada, egli sapeva che aveva un rapporto di solidarietà con il proprio curante che doveva rispettare e viceversa. Questo tipo di rapporto estremamente importante ha creato un momento pratico di apertura delle istituzioni che ha portato logicamente a cambiare il nostro concetto di salute o di malattia; soprattutto, ripensando alla definizione che il mio collega inglese mi aveva dato di "cosa è l’istituzione" ci ha portato, quando uno ci chiede "cosa è l’istituzione", a prenderlo per mano, portarlo per la strada e dire: "è questa". In questa maniera noi distruggiamo il concetto di istituzione aperta e ci poniamo in una dimensione totalmente altra, una dimensione in cui il rapporto da uomo a uomo è determinante per la nostra vita sociale.
DISCUSSIONE
D. Quando è venuto a Trieste, questo programma l’aveva ben chiaro o è un programma nato con il tempo e in momenti successivi?
R. Le rispondo con un’altra situazione però non riferita a Trieste. Nel ‘62, quando io e altre persone che lavoravano con me abbiamo cominciato questa trasformazione a Gorizia, gli infermieri mi chiedevano: "Senta, professore, ma dove vuole arrivare? Cosa vuol fare?" e io rispondevo sempre: "Non lo so!" Mi chiedevano: "Come vuole cambiare le cose? Non è possibile".
Però, giorno per giorno le cose cambiavano. Mi chiedevano "Dove vuole arrivare?" e io rispondevo "Non lo so". In effetti non lo sapevo. Quando sono venuto a Trieste la situazione era un po’ diversa perché erano avvenute molte cose, avevo un’esperienza di anni, un’esperienza non, come si dice, fatta sulla pelle dei malati, sulla pelle degli infermieri, ma un’esperienza che avevamo fatto insieme evidenziando come fosse possibile cambiare. Poi c’era una esperienza pratica che era stata quella di altri paesi europei, come l’Inghilterra che ci avevano date le indicazioni per cambiare. Direi che qui a Trieste c’è stata una situazione nuova che era quella di come arrivare al superamento e all’eliminazione dell’Ospedale Psichiatrico. Mentre a Gorizia il fatto di aprire il manicomio, di creare una situazione di rapporto tra i componenti dell’istituzione, di creare quella che si chiama la “Comunità Terapeutica” era il fine, a Trieste era quello di superare il manicomio perché avevamo visto attraverso esperienze precedenti che, per quanto fosse bella, vivibile, umana, la Comunità Terapeutica risultava qualche cosa che si richiudeva e riformava un ghetto, magari più bello, ma un ghetto psichiatrico, una altra volta quella che era un’istituzione chiusa, in cui l’obiettivo primo era il controllo sociale. Allora per noi il problema era questo: come portare nel territorio le contraddizioni che erano chiuse all’interno della comunità terapeutica, dell’ospedale. Direi che il superamento dell’ospedale non è avvenuto con una tecnica particolare, è avvenuto lavorando giorno per giorno, disperatamente. Lo so che in questi anni per arrivare a questo ci sono state varie strategie diverse che hanno portato alla soluzione di questo problema, e delle difficoltà di rapporto tra noi e i medici, tra me e i medici, tra voi e i medici, tra me e voi.
Se noi pensiamo alla storia che ha portato al superamento del manicomio, vediamo che questo non è avvenuto per l’opera dello spirito santo, né per una delibera burocratica dell’Amministrazione che aveva all’inizio del ‘71 che quella politica doveva finire in questa maniera. Man mano che noi lavoravamo vedevamo che il momento reale del cambio era quello di riportare le contraddizioni che erano all’interno dell’istituzione, fuori, dove dovevamo lavorare. Allora la cosa prima da affrontare era la situazione ospedaliera. Affrontare il territorio con una rete di servizi alternativi, cosa che nel tempo è avvenuto, e a tal punto che ha permesso la deospedalizzazione totale, la chiusura burocratica dell’ospedale. Direi che non c’erano le tavole di Mosè che ci dicevano cosa fare ma c’era l’indirizzo che ha portato ad una visione reciproca, che ci ha portato ad un’alternativa tendenziale della nuova situazione di gestione dell’istituzione. Per esempio, penso che nessuno è stato forzato a lavorare in un determinato modo perché anche il lavoro di territorio da parte degli infermieri è stato un lavoro volontario. Gli infermieri sono usciti un po’ alla volta, molti sono ancora qui, dentro l’istituzione, e tutto è stato fatto nella maniera in cui tutti potessero capire come la situazione si trasformava, e tutti potessero capire che la istituzione non può vivere in un determinato modo mentre una società sta trasformandosi in una determinata maniera, che nel periodo in cui si va sulla luna, cioè nel momento in cui la scienza si apre ai problemi particolari, nuovi, nel momento in cui la società vede in maniera diversa i rapporti, non si può pensare che possa sopravvivere un manicomio, un lager.
D. Siamo usciti fuori, abbiamo cambiato noi stessi e l’istituzione, adesso siamo fuori con i nostri utenti. Abbiamo capito delle cose con i nostri utenti. Ma come fare per andare avanti? Come far capire alle fabbriche, alla gente, all’altra gente? Cioè è cambiata questa istituzione ma forse non è cambiata con la stessa velocità, la società attorno.
R. Come convincere gli altri? Gestire la nuova istituzione non in modo da dare una risposta preformata, ma in modo che la persona possa esprimersi nella nostra struttura territoriale. Questo è difficilissimo perché andiamo contro corrente, perché l’organizzazione sociale vorrebbe una istituzionalizzazione esterna del controllo sociale. Se noi facciamo il nostro mestiere convinciamo gli altri. Questo è lo slogan: Non vincere ma convincere. E si convince soltanto con il nostro comportamento, non con le parole. Nel momento in cui noi lavoriamo diversamente, nel momento in cui c’è un nostro impegno costante penso che questo possa convincere la gente.
D. Si è fatto molto per la deistituzionalizzazione e poco per la prevenzione.
R. Per fare la prevenzione bisogna dimostrare che la prevenzione comincia nel momento in cui l’ospedale è eliminato e gli operatori cominciano nel territorio ad affrontare i problemi come invece non era possibile fare in manicomio. Il fatto che ci siano sei centri di Salute Mentale a Trieste, significa che si sta facendo lavoro di prevenzione. Si cerca di far visite domiciliari, gestendo diversamente la gente. Il lavoro nel territorio è opera di prevenzione non già di gestione della malattia in quanto tale.

PREVENZIONE E DEISTITUZIONALIZZAZIONE
L’originalità del problema sanitario oggi non solo qui a Trieste ma un po’ ovunque, è che il concetto di medicina, o la medicina, oggi viene vista non soltanto come qualcosa riferita ad un corpo malato in una situazione sociale determinata. Cioè se io mi ammalo, mi ammalo qui in questo posto dove c’è una situazione determinata storicamente, ben precisa, in cui la mia malattia dipende sì dal fatto che ho la testa lesa, i polmoni lesi, il fegato leso e quindi come conseguenza ho la malattia, però questo non è un problema di causa-effetto; è la mia malattia nell’ambiente sociale in cui vivo. Per esempio essere ammalati ricchi o poveri sono due situazioni diverse perché si possono avere due risposte diverse al proprio star male. Essere malato dove posso avere assistenza ed essere malato nel deserto sono due cose totalmente diverse. Essere malati ed avere la possibilità di vivere la propria malattia cercando di riabilitarsi, cioè far fronte alla situazione di malattia o non essere abbandonati a sè stessi come succede oggi e succedeva ieri in tutti i manicomi del mondo sono due cose totalmente differenti. Allora è vero che il bacillo o virus di una malattia determina questa malattia, però questa è importante che sia vista nel momento storico particolare e nel tessuto sociale determinato nel quale vive. Allora noi possiamo fare un esempio di questo se pensiamo all’opera che abbiamo fatto nel tessuto sociale di Trieste a proposito dell’assistenza psichiatrica: noi vediamo che una volta nel momento in cui una persona entrava in manicomio, rischiava di passare l’intera vita la dentro. Oggi una persona in fase acuta che ha bisogno della nostra opera viene al nostro servizio e anche dopo un giorno può essere dimessa o presa in carico da un altro tipo di servizio. Oggi possiamo vedere come, avendo un diverso atteggiamento nei confronti della malattia, abbiamo anche una soluzione diversa della malattia.
Considerando che ci sono situazioni diverse pur sempre per una stessa causa, il problema era quello di vedere come possiamo prevenire questi fatti, cioè possiamo avere nei confronti di una malattia o situazione lo stesso tipo di atteggiamento indipendentemente dal fatto che uno sia ricco o povero, borghese o proletario, bello o brutto. Tutte le persone che vengono nel nostro servizio devono avere lo stesso tipo di gestione, amministrazione dei loro bisogni ma è anche importante come prevenire che una persona si ammali. La situazione di malattia scaturisce dall’organizzazione sociale nella quale viviamo, che sembra tutta tesa a creare malattie invece di evitarle. Per esempio nelle fabbriche c’è una situazione che determina la malattia. Vediamo molti operai che muoiono di tumori, operai che lavorano con determinate sostanze tossiche con una situazione protettiva molto relativa, le cosiddette "morti bianche", lavoratori edili che cadono dalle impalcature perché non abbastanza protetti. Possiamo vedere in generale che tutto il problema del mondo del lavoro, riportato all’organizzazione sociale, non è certo una situazione che dia protezione al cittadino ma una situazione che determina uno stato di disagio, di malattia del cittadino. Altro fenomeno, per esempio, è quella della disoccupazione. In Italia ci sono circa due milioni di disoccupati, e questo non è una cosa che di serenità al cittadino anche se la costituzione italiana dice nel suo primo comma che tutti hanno diritto a lavorare. E tutti hanno anche il diritto alla salute e quindi noi dobbiamo difenderci, come cittadini, dal cadere malati. Ecco perché si fa un gran parlare di prevenzione. Prevenzione dal cadere nella malattia, dal morire, diciamo. Un concetto di prevenzione è quello di diagnosi precoce, per cui si interviene precocemente e quindi si arresta l’evoluzione della malattia, ma la cosa più importante non è tanto prevenire la malattia quanto mantenere la salute. Un buon sanitario è quello che non cura ma fa in modo che una persona non si ammali; il Centro è, nell’ambito di questo discorso, il luogo in cui la gente va non solo perché è ammalata ma anche per parlare, per dire delle cose, per chiedere dei consigli. Qui nasce una certa confidenza anche con quello che va per esempio a giocare a ping-pong, a suonare la fisarmonica. Vuol dire allora che il Centro rappresenta un momento di aggregazione importante che non è solo per curare la malattia ma per prevenire una situazione, facilitando l’aggregazione sociale con la gente. Questa scoperta è stata fatta man mano che abbiamo svolto un’azione pratica di trasformazione delle nostre istituzioni. Il manicomio rappresenta un tipo non di prevenzione ma eventualmente di cura, dove una persona entrava, si curava, poi veniva dimessa, se non restava dentro.
Questa era la situazione psicologizzata. Dal momento che noi abbiamo rifiutato questo tipo di controllo sociale, questo tipo di assurda e paradossale cura, allora si è creata tutta una situazione diversa per cui noi avevamo un rapporto del tutto differente con la persona che ci veniva a domandare un consiglio. Questo rapporto era sì di cura ma anche di prevenzione in modo da prevenire il fatto che la situazione peggiorasse, e quindi mettere la persona in una situazione diversa nella quale era possibile dare una risposta diversa ai suoi bisogni. Per questo, e non certamente perché era di moda, abbiamo creato contemporaneamente alla deistituzionalizzazione, i centri di salute mentale. Abbiamo messo insieme il problema della deistituzionalizzazione che diveniva problema di prevenzione; nel momento in cui la gente usciva dal manicomio e veniva poi a chiedere assistenza nel C.S.M. era una situazione di prevenzione; facevamo in modo di prevenire la situazione di ricaduta della cronicizzazione manicomiale e contemporaneamente prendevamo altri clienti, altre persone che venivano a chiederci consigli, che venivano a chiederci la nostra opera nella maniera in cui abbiamo detto. Dunque, essenzialmente il C.S.M. fa opera di prevenzione sia per persone che vengono a domandare aiuto, sia come momento di aggregazione generale sul territorio sul quale noi agiamo. Quindi salute e malattia, prevenzione sono momenti diversi di uno stesso fatto; il problema di una persona che, sana o malata viene a chiedere aiuto, ha sempre un momento particolare che è il momento della prevenzione perché anche quando una persona è considerata sana, è sempre una persona che può avere bisogno del medico che è sempre disponibile a dare una risposta che possa far fronte ai suoi bisogni. Quindi direi che il concetto di salute e malattia e prevenzione sono concetti molto labili che rappresentano insieme tutta una problematica nuova da affrontare al di là di quello che è la divisione specifica del lavoro.
È complicato parlare di prevenzione nell’ambito della Psichiatria. è più facile parlare di prevenzione in medicina generale che non nell’ambito della salute mentale. In medicina generale per esempio, nel momento che si accerta che la donna, in un dato momento della sua vita può andar soggetta a tumore dell’utero, c’è un test da fare che può indicare se vi sono dei pericoli e quindi intervenire per evitare la malattia.
Il nostro compito è parlare del problema della prevenzione nell’ambito della salute mentale.
Per esempio la persona che si droga o che beve. Oggi si fa un gran parlare di questo: la droga e altri tossici sono all’ordine del giorno. Bisogna vedere in quale maniera si può affrontare una piaga sociale così grossa. Leggendo i giornali si vedono le opinioni di tutti. Oggi l’Italia è divisa in due. Quelli per la liberalizzazione delle droghe pesanti e quelli contrari. Questi due punti di vista che l’opinione pubblica ha nei confronti della droga rispondono a due concetti diversi sul problema della tossicodipendenza. Sono due modi di risposta al problema che ha in sé tutta una logica del problema della vita perché la persona che è tossicodipendente è malata, perchè nel momento che assume la droga sta male. E allora, come affrontare la malattia e la prevenzione della dipendenza dalla droga?
Io, per affrontare il problema della droga come situazione preventiva ho due possibilità: o metto in galera tutti quelli che si drogano e criminalizzo questo fenomeno in maniera da emarginare i drogati, e così violento questa situazione; o cerco di studiare il problema vedendo cosa, oggi come oggi, posso fare. Io penso che pur essendo stato per molto tempo contrario alla liberalizzazione della droga, l’eroina, non certo delle droghe leggere, io penso che oggi l’eroina bisogna legalizzarla per una semplice ragione: che oggi il medico del drogato è il trafficante, quello che vende l’eroina e ha in mano l’eroinomane e che oggi gli dà la droga e domani non gliela dà.
Allora io devo togliere questo problema al trafficante e darlo in mano a chi può gestire la salute dei cittadini in modo da invertire il problema della malattia in prevenzione della malattia stessa, determinando una situazione di salute.
Penso che la contraddizione che oggi è soltanto nelle mani del drogato deve passare nelle mani del medico. Il medico deve gestire il problema della liberalizzazione dell’eroina o della morfina che sono farmaci e quindi devono essere gestiti dal medico. La contraddizione deve passare al servizio sanitario nazionale quindi nelle mani del medico. Ma è soltanto un problema del medico il quale dà l’eroina e basta. Il medico deve affrontare il problema dell’eroinomane come affronta il problema del diabetico, come affronta il problema della dialisi ecc. e come soprattutto noi psichiatri affrontiamo il problema degli psicofarmaci. Ci rendiamo conto noi quanti tossicodipendenti creiamo dando farmaci. Quando Tofranil, Largatil noi diamo: noi creiamo dei dipendenti. Noi siamo necessitati a far questo ma contemporaneamente cerchiamo di creare delle situazioni di rapporto differente per cui abbiamo la responsabilità di una situazione che noi determiniamo e che poi dovremmo risolvere. Io penso che in realtà l’eroina come risultato di una civiltà è una situazione di dipendenza da un tossico che devo affrontare in qualche maniera, facendo in modo che la somministrazione dell’eroina tolga un po’ alla volta il problema dell’eroinomane; è il mio compito di medico. Chi deve prendere in mano il problema del tossicomane se non il medico, se non l’operatore del servizio sanitario. Chi lo prende in mano? Il sociologo, il politico, lo psicologo? No, lo prende in mano o il trafficante o il medico. Le due persone che sono delegate. Nel momento in cui l’eroina viene data gratis dall’ospedale, l’eroinomane frequenterà l’ospedale per avere il tossico e naturalmente il trafficante diminuirà il suo lavoro; e quindi scoppierà la contraddizione. Questa è un’opera di prevenzione che noi facciamo nei confronti del problema della droga: curando noi preveniamo. Ma quello che è importante è che noi mettiamo un grosso problema all’interno della medicina perché questo problema, questa contraddizione data in mano al medico è un problema che fa saltare la tranquillità e la pace sociale della medicina perché il medico è costretto a prendere parte al problema delle contraddizioni sociali generali perché l’eroina è una delle grosse contraddizioni sociali e il medico non può star fuori del problema, deve entrare nel problema. È come il problema della psichiatria. Nel momento che noi abbiamo portato la psichiatra all’ospedale generale, noi abbiamo portato una grossa contraddizione all’interno di esso. Tanto è vero che nell’ospedale generale nessuno ci voleva, neanche come consulenti, perché per loro era importante che nel momento in cui entrava un matto, si facesse la triplice copia e lo si mandava in ospedale.
Nel momento in cui abbiamo cominciato a creare una èquipe che affrontava il problema, allora hanno cominciato a preoccuparsi perché la guardia dell’ospedale diventava un posto non di smistamento ma un posto medico di verifica; perché una persona che andava là poteva andare a casa, in ospedale, nel territorio secondo la decisione del gruppo dei medici e infermieri che venivano chiamati. Questo è un grosso problema. Noi non dobbiamo prendere il problema specifico della malattia mentale, della tossicodipendenza, dei tumori; questi sono tutti elementi che esprimono una contraddizione della nostra società e come tali devono essere presi in carico dal medico come servizio non dal medico come specifico e si deve creare un nuovo tipo di gestione della medicina e dare una nuova risposta alla persona che sta male.
Un servizio che risponde veramente ai bisogni della gente.
Allora i due concetti di salute e malattia si chiariscono velocemente perché non si distinguono più il malato e il sano. È un ciclo della vita per cui una persona non può essere malata e anche sana e quindi a seconda del momento in cui sarà preso in carico da differenti servizi. È importante che quando io sto male ho il diritto di avere qualcuno che si prende cura di me. Oggi il nostro servizio sanitario non soddisfa questa domanda. Nel nostro mestiere la finalità è quella di affrontare, trovare la maniera di affrontare la contraddizione che noi siamo: oppressori ed oppressi, e che dinanzi a noi abbiamo una persona che si vorrebbe opprimere; bisogna trovare il modo per cui questo non avvenga. L’uomo ha sempre avuto questo impulso: di dominare l’altro. È naturale che sia così. È innaturale quando si istituzionalizza questo fenomeno oppressivo. Quando c’è un’organizzazione che approfittando dei problemi contraddittori crea un circuito di controllo per distruggere la contraddizione e vivere i due poli della contraddizione ora in un modo ora in un altro. Noi rifiutiamo questo discorso. Noi diciamo di affrontare la vita perché la vita contiene salute e malattia e affrontando la vita noi pensiamo di fare della prevenzione, pensiamo di fare il nostro mestiere, di infermieri, di sanitari, di medici. 
Basaglia 9 ottobre pomeriggio
La parola istituzione mi pare sia venuta di moda negli ultimi vent’anni. Essa è mutuata più nella cultura anglosassone che nella nostra cultura. Direi che lavorare in manicomio è sempre stato lavorare in ospedale psichiatrico. Non era usuale dire "l’istituzione psichiatrica" come oggi si usa dire nel linguaggio comune. Mi pare anche giusto che abbiamo cominciato ad usare questa parola invece della parola specifica "ospedale".
Le istituzioni sono i luoghi nei quali ci sono i servizi di cui la società usufruisce. L’istituzione è la scuola, l’esercito, la polizia, la famiglia. Sono tutte quelle situazioni che aggregano le persone per varie e differenti modalità e finalità. In altre parole tutte queste istituzioni hanno le stesse finalità ma contenuti diversi. Il manicomio è l’istituzione che dovrebbe prendere in cura delle persone che sono "pazze", che sono "anormali". Un concetto d’uso, parlando dell’istituzione è quello secondo il quale una istituzione è tale quando si riesce ad istituzionalizzare quello che è il suo significato; cioè per esempio il matrimonio è una istituzione e vivere una situazione matrimoniale è istituzionalizzare il matrimonio. Il concetto di istituzionalizzare è diventato un concetto negativo. Il vivere l’istituzione nella sua completezza totale, cioè in maniera totalizzante, è termine negativo. Quando si dice "si istituzionalizza" non vuol dire che c’è il completamento di me istituzione, ma c’è il completamento di identificarsi con l’istituzione stessa. Se noi prendiamo il manicomio, esso ha come finalità la cura del malato, ma vediamo che al contrario il manicomio nato per la cura del malato aveva come finalità invece la custodia, il controllo del malato: cioè il suo significato primario, la cura, era stata sostituita da un’altra finalità che era il controllo del malato. Queste istituzioni chiuse che erano nate per una finalità ne vengono ad aver un’altra; cioè la persona, curante e curato, si identificava nel ruolo negativo della istituzione e quindi si istituzionalizzava. Quindi il medico diventava la persona che aveva come finalità il controllo sociale del malato e la cura scompariva perché la finalità dell’istituzione era quella di mantenere questa logica di controllo sociale di modo che il suo contenuto non veniva già curato, veniva controllato. E quindi si formava una situazione ghettizzante dell’istituzione. Ecco perché per quello che riguarda il manicomio, il termine di istituzione ha voluto dire il termine negativo della funzione negativa del manicomio che, invece di essere luogo di cura era luogo di controllo. Direi che lo stesso discorso si può fare per la scuola. È giusto prendere il nome di istituzione per vari tipi di situazione. Poiché l’istituzione ha come punto di riferimento sia l’ospedale, che la scuola, la prigione, la polizia ecc.. Sono tutte istituzioni differenti che sono il cerchio di protezione del sistema sociale. È una specie di "cerchio attorno" in cui la società si premunisce per difendersi dai diversi, dalle persone che non sono nella norma. Ecco come dal concetto di istituzione arriviamo al concetto di norma cioè tutto il cerchio istituzionale che è attorno alla società nella quale viviamo contiene quello che non è nella norma, quello che deve rientrare comunque nella norma.
Per esempio che non è nella scuola e non frequenta la scuola è un anormale perchè per legge il ragazzo deve frequentare la scuola fino ad una determinata epoca della vita. Però nel momento che questo anormale frequenta la scuola diventa normale. Il malato di mente è un anormale finché non è preso in cura e non entra nell’istituzione psichiatrica. Quando entra nell’istituzione psichiatrica è normale.
Il delinquente, il criminale è un anormale perché è fuori; diventa un normale quando entra nell’istituzione. Naturalmente in sé lo scolaro è una persona che non è nel gioco produttivo del vivere sociale. Il criminale anche, il malato di mente anche, però queste persone diventano normali nel momento in cui frequentano, sono dentro al contenuto che è stato preparato per loro. Quindi il gioco istituzionale, la catena delle istituzioni è una specie di circolo che protegge la società della norma.
Salute e Malattia
Penso che il concetto di salute e malattia nel campo sanitario è un po’ monco e mancante di qualche cosa se accanto a queste parole non mettiamo un altro concetto che è quello della PREVENZIONE. Penso che questa parola sia una parola chiarificatrice che possa farci rendere conto bene di cosa vuol dire salute e malattia. Salute e malattia sono dei concetti abbastanza statici se non hanno contemporaneamente una spiegazione a monte. Perché nel momento in cui diciamo salute ci riferiamo allo stato di benessere che noi abbiamo in questo momento qui. Ma per capire bene cosa è la salute, ma soprattutto la malattia, bisogna comprendere il significato di prevenzione. Prevenzione è prevenire qualcosa e nel caso specifico prevenire che una persona si ammali. Ciò può avvenire in molte maniere cioè non mettere la persona nell’occasione di ammalarsi per esempio. La persona che vive in una condizione di lavoro che può essere nociva, non previene la malattia perché determina la malattia. Per esempio sappiamo oggi per gli studi fatti per la medicina del lavoro, che esistono delle fabbriche che inducono e determinano grosse malattie. Per esempio lo studio dei tumori: ci sono delle lavorazioni chimiche che portano poi statisticamente a molti operai che muoiono di tumori. Evidentemente quelle fabbriche non prevengono le malattie ma inducono la malattia. Allora direi che bisogna lavorare a livello medico per prevenire questa situazione di malattia. Come si previene? La cosa più semplice in questo caso sarebbe chiudere la fabbrica e così le persone non avrebbero malattie derivate dalla fabbrica. Però queste persone devono lavorare e quindi non si può chiudere la fabbrica. La medicina del lavoro allora studia un modo per proteggere il lavoratore in modo che ci siano accorgimenti in modo che questa lavorazione sia il meno nocivo possibile.
PREVENZIONE in altri campi della medicina avviene in mille altre maniere, però noi vediamo che l’organizzazione sociale nella quale noi viviamo, complessivamente produce più malattia che salute. Per esempio noi vediamo che ogni giorno sul giornale quantità enormi di persone muoiono per strada, le macchine si scontrano, una macchina mette sotto un’altra. Evidentemente l’andare per la strada nella vita di ogni giorno non è salutare e può produrre la morte. Neanche questa è una situazione che previene la malattia ma direi che produce la morte quindi produce malattia. Mille sono gli argomenti che noi possiamo tirar fuori per dire che ci sono delle situazioni di vita che producono malattie e non salute. Allora complessivamente bisogna dire che la vita che noi viviamo non previene malattia ma produce malattia.
Un concetto abbastanza complicato perché non si vede ma si vive, è la prevenzione nell’ambito della malattia mentale, perché supponiamo che in medicina generale si può prevenire realmente. Per esempio nell’ambito della ginecologia la prevenzione del tumore all’utero si fa facendo un test particolare a cui le donne si sottopongono in un determinato periodo. Quindi si può prevenire il tumore: nel momento in cui il test evidenzia delle cellule tumorali si interviene immediatamente e quindi si può salvare la donna. Lo stesso per esempio i bambini a scuola fanno dei determinati test. Per quanto riguarda il problema della psichiatria, dell’igiene mentale è molto più difficile capire come si può prevenire la malattia mentale. È molto difficile da capire perché non è una cosa che si tocca. È una cosa che si vive. Un esempio molto evidente quando noi parliamo di alcolismo o di droga. Sentiamo l’esigenza di creare una situazione alternativa in cui non è il malato a disposizione del medico, ma il medico a disposizione del malato. Il problema istituzione cambia. L’anormalità non è più chiusa.
L’uomo può essere normale o anormale ma questo non vuol dire che nessuna delle due diverse situazioni deve essere gestita ora da una situazione ora da un’altra. Il problema del livello di malattia è sempre proporzionato a quello che l’individuo è nel momento di una sua situazione di vita.

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