martedì 7 giugno 2016

Thomas Szasz La follia e il matrimonio di Virginia Woolf a cura di Susan Petrilli

Thomas Szasz
 
LA MIA FOLLIA MI HA SALVATO
La follia e il matrimonio di Virginia Woolf

Traduzione, introduzione e cura di Susan Petrilli

ed. SPIRALI

Follia e psichiatria. La critica di Thomas Szasz al mito della malattia mentale

di Susan Petrilli


 





 















 



“La psichiatria non è medicina, ma attività poliziesca”

Presentazione
L'itinerario di una donna, scrittrice e editrice, e l'infelice relazione con il marito Leonard, fino al tragico epilogo
Thomas Szasz racconta, in modo analitico, appassionato e avvincente, la vita di Virginia Woolf, dall'infanzia fino al tragico epilogo. L'autore è qui a un tempo analista e scrittore: una duplice disposizione all'ascolto che gli consente di cogliere i lati meno appariscenti della personalità di Virginia, in diretto e aperto contrasto con il discorso dominante, dalla critica letteraria alla psichiatria.
Della scrittrice inglese, Thomas Szasz ricostruisce la vita privata nei suoi rapporti con il padre, l'ambiente familiare, gli amici, i personaggi del circolo di Bloomsbury, e con il marito Leonard. Proprio di Leonard Woolf sono esaminati e descritti nei minimi dettagli il carattere, il modo di "sentirsi ebreo", l'attività editoriale (pubblicò le opere di Virginia e divenne editore ufficiale di Sigmund Freud), la "filosofia", le aspirazioni, le idee sociali e politiche, le idiosincrasie, l'ossessiva e ossessionante dedizione alla moglie.
Il rapporto con quest'uomo ebbe un ruolo determinante in tutte le scelte di Virginia, nelle sue gioie e nelle sue sofferenze, nella sua scrittura, nei suoi rapporti privati e pubblici, nel modo ambiguo di vivere la propria "follia" e nelle relazioni con coloro che ebbero l'incarico di gestirla. Un romanzo che non è racconto di fantasia, ma l'affascinante ricostruzione della storia di una delle più rivoluzionarie scrittrici del secolo scorso.
* * *
Questo libro offre un’analisi critica del mito della “malattia mentale”, ma anche, più in generale, della grammatica della vita quotidiana, del mondo così com’è, della vita nella sua articolazione in ruoli sulla base della logica dell’identità chiusa, pronta a sacrificare l’altro, a espungere l’altro — i ruoli collegati con l’identità sessuale, l’appartenenza, la funzionalità. Thomas S. Szasz critica non soltanto la psichiatria con la sua vocazione alla sorveglianza e al controllo sociale, ma anche i luoghi comuni di cui essa si serve e che impediscono l’incontro con l’altro, l’ascolto, l’accoglienza. Lungo tutto il percorso, sia teorico sia pratico, egli tende all’ascolto dell’altro, ascolto che è cosa ben diversa dal “voler sentire” istituzionale, un ascolto al di là dei ruoli e delle identità, volto a dare voce e ospitalità alla singolarità di ciascuno.
In particolare, con questo libro, “La mia follia mi ha salvato”, Szasz si propone di liberare Virginia Woolf dai luoghi comuni che la riducono a vittima della malattia mentale. “La mia follia mi ha salvato” è quanto Virginia dichiara in una lettera del 1924 al pittore e amico Jacques Raverat. Ma se di “follia” dobbiamo parlare nel caso di Virginia, si tratta, nell’analisi di Szasz, del rifiuto di mettere in comunicazione le varie parti di sé e di far dialogare tra loro i suoi molteplici io. Invece di cercare una condizione di ascolto e di accoglienza nei confronti delle differenti sfere della sua vita, Virginia sceglie di tenerle distinte e separate. La maschera di “donna maritata” e di “genio folle”, luoghi comuni a cui Virginia avrebbe volutamente fatto ricorso, diventa realtà, al punto che, secondo Szasz, ella si uccise non certo perché fosse veramente folle, ma semplicemente perché “voleva mettere fine alla sua vita”, potremmo dire per stanchezza e disillusione.
Biografia di Szasz
Thomas Stephen Szasz
Thomas Stephen Szasz (Szász Tamás István) è nato a Budapest il 15 aprile 1920, il secondo di due fratelli, da una famiglia di classe medioalta e di livello culturale elevato. La madre, molto bella, affabile, elegante, che “Tomi” amava molto, si dedicò all’organizzazione domestica e alla famiglia. Morì nel 1990, all’età di novantasei anni. Il padre, laureato in giurisprudenza, svolse la professione di uomo d’affari nel campo dell’agricoltura. Szasz lo descrive come un uomo severo, buono, generoso, affidabile e mentalmente aperto. Era interessato all’economia, alla politica, ma la passione più grande era la famiglia: adorava la moglie. Il matrimonio era “estremamente armonioso — idilliaco”, merito che Szasz attribuisce ai genitori, ma anche al carattere tradizionale del rapporto tra i ruoli di marito e di moglie. Entrambi erano atei, ma celebravano il Natale. Il fratello maggiore, George John Szasz (György János), nato l’11 gennaio 1918, svolse, come vedremo, un ruolo determinante nella sua vita.
Alcuni motivi costanti negli anni della formazione di Thomas Szasz erano l’insistenza sulle buone maniere, la gentilezza e la cortesia, lo studio serio e l’affetto per la giovane governante “Kisu”, alle cui cure furono affidati i fratelli quando Tomi aveva appena un anno, e che, a differenza della tradizione che voleva che la governante non solo si curasse dei bambini ma fosse in grado d’insegnare loro una seconda lingua e farli diventare bilingui, conosceva solo l’ungherese. Szasz era un bambino malaticcio, condizione da cui trasse due grandi vantaggi: il primo, il piacere di assentarsi da scuola, che alle elementari non amava, e dedicarsi alle attività preferite — disegnare, colorare, giocare con i puzzle e cucire, arte nella quale era diventato molto abile; il secondo vantaggio consisteva nel fatto che imparò a simulare la malattia, per potere rimanere a casa e giocare. Nonostante sia Tomi sia György fossero stati esonerati dalla ginnastica a scuola per motivi di salute, si ribellarono a qualsiasi restrizione e si dedicarono all’attività sportiva anche in maniera competitiva tra loro, specialmente quando si trattava di giocare a ping-pong e a tennis.
Il sistema educativo in Ungheria era rigoroso e il giovane Tomi fu incoraggiato a orientare gli studi nella direzione delle scienze. All’età di dieci anni intraprese gli studi presso il ginnasio statale Minta Gimnázium di Budapest, uno dei migliori in Ungheria, prendendo a modello il fratello, “lettore onnivoro”, studioso, informato, brillante, come esempio da seguire nello studio. Tradizionalmente, anche per il forte influsso del cattolicesimo, nelle scuole maschi e femmine erano tenuti separati. I fratelli Szasz erano legati da un rapporto di affetto, amicizia, reciproco sostegno. Pur sviluppando un particolare interesse per la matematica e la fisica, molto presto Thomas s’interessò anche di politica, letteratura e medicina e prese a studiare le lingue — oltre all’ungherese il francese, il tedesco, il latino. Poiché era obbligatorio avere un’identità religiosa, e dovendo scegliere tra ebraismo, cattolicesimo e protestantesimo, la famiglia Szasz, benché atea, scelse l’ebraismo.
In An Autobiographical Sketch, Szasz racconta: “Ebbi come maestro un rabbino, e questa esperienza intensificò la mia avversione alla religione che sembrava consistere in credenze presuntuose, riti senza senso e minacce terrificanti. Solo da adulto iniziai a apprezzare le religioni come importanti manifestazioni simbolico-culturali della natura umana. Capii anche che la maggior parte della gente preferisce la dipendenza dall’autorità e l’illusoria sicurezza che ne deriva, piuttosto che l’indipendenza con il relativo coraggio di affrontare le incertezze della condizione umana senza aiuti da parte delle divinità e dei loro ministri”. Molto presto nacque in Szasz il desiderio di studiare medicina anche se nella sua famiglia non c’erano precedenti in tal senso, e anche se ciò non avrebbe recato particolari vantaggi economici e sociali — molto più prestigioso in Ungheria era fare il professore universitario o l’uomo d’affari. Se per un qualsiasi motivo non gli fosse stato possibile realizzare questa scelta, anche perché il padre era contrario, come alternativa avrebbe fatto lo scrittore.
L’annessione dell’Austria da parte di Hitler ebbe conseguenze su Budapest e sulla vita dei due fratelli Szasz. Mentre György, ottenuta la maturità, era già iscritto al corso di laurea in chimica, Tomi invece non aveva ancora conseguito la maturità. In quanto ebrei, i due fratelli, e in tempi diversi anche i genitori e i parenti, dovettero fuggire negli Stati Uniti. E il 25 ottobre 1938 giunsero a Hoboken, New Jersey. Ma lì, come Szasz racconta, l’antisemitismo era non meno forte che nell’Ungheria sotto l’influenza del nazismo, per di più Thomas, diversamente dal fratello, non conosceva l’inglese, avendo studiato a scuola il tedesco e il francese.
Dunque, negli Stati Uniti egli conobbe la segregazione razziale. Gli ebrei erano esclusi dalle scuole di medicina, come del resto lo erano le donne e la gente di colore, tranne che per qualche rara eccezione. La situazione di Szasz fu aggravata dal fatto che, nonostante le origini ebraiche, egli proveniva da una famiglia atea e era ateo egli stesso. Laureatosi in fisica all’Università di Cincinnati nel 1941, l’anno in cui gli Stati Uniti d’America entrarono in guerra, per una serie imprevista di eventi favorevoli Szasz riuscì a iscriversi alla scuola di medicina della stessa Università. Inoltre, poiché occorrevano medici militari, i corsi di laurea in medicina furono velocizzati, sicché Szasz si laureò, con voti eccellenti, nel giugno del 1944. Per motivi di salute, fu esonerato dal servizio militare.
Lo studio della medicina per Szasz era collegato non con la possibilità di esercitare la professione, cosa che non gli interessava affatto, ma con un forte bisogno di conoscenza e di controllo: in questo caso la conoscenza e il controllo del proprio corpo, così come, in genere, di tutto ciò che lo riguardava. “Ritenevo che qualsiasi cosa che non capivo fosse per me una potenziale minaccia, e che l’acquisire informazioni e conoscenza fosse una questione di prudente autoprotezione. Volevo sapere come funzionano le radio, le macchine, il corpo, la legge e la società, l’economia, la storia — in breve, come funziona la vita”.
La letteratura, la storia, la filosofia, la politica erano la sua vera passione, perché contribuivano a fargli capire come la gente vive e anche come muore e come soffre. La psichiatria non rientrava nei suoi interessi per la medicina: “… fin da bambino avevo appreso che la psichiatria non era medicina, ma attività poliziesca”. Tuttavia, anche per i motivi suddetti, egli si addentrò abbastanza presto nel campo della psichiatria. Già negli anni trenta Szasz leggeva testi di psichiatria e di psicanalisi, conosceva gli scritti di Sigmund Freud e di Sándor Ferenczi e, ancora prima di lasciare l’Ungheria, era arrivato alla determinazione che non solo queste due “discipline” non hanno nulla a che fare con la medicina, ma non sono neppure collegate tra loro: gli psichiatri rinchiudono la gente a beneficio dei parenti, gli psicanalisti s’intrattengono in conversazioni “confidenziali” con i loro pazienti.
Negli Stati Uniti, nonostante una tradizione non medica nell’ambito della psicanalisi, rappresentata da Anna Freud, Melanie Klein, Erik Erikson, Erich Fromm, Bruno Bettelheim, Robert Waelder, la psicanalisi era considerata un’attività medica vicina alla psichiatria. Nel 1948 Szasz iniziò la pratica psicanalitica e, dopo varie vicende, tra cui due anni di servizio militare come medico, dal 1954 al 1955, durante la Guerra in Corea, nello stesso anno in cui lavorava al suo primo libro, Pain and Pleasure, il 1956, accettò l’incarico di professore di psichiatria presso la State University of New York College of Medecine (Suny), ora Upstate Medical University a Syracuse, New York. Szasz aveva un curriculum brillante sia in medicina sia in psichiatria e in psicanalisi — si era diplomato presso il Chicago Institute for Psychoanalysis nel 1950 e successivamente, nel 1951, si era qualificato come psichiatra ufficialmente riconosciuto dall’American Board of Psychiatry and Neurology.
Tuttavia, egli sapeva bene di non voler avere a che fare con la pratica psichiatrica e tanto meno con quella psicanalitica, e di non voler restare presso l’Università di Chicago. Riteneva che il ruolo del medico consista nell’assistere coloro che cercano aiuto, e che lo psichiatra commetta un grave errore morale trattando e rinchiudendo individui contro la loro volontà. La psicanalisi, per lo meno, aveva d’interessante il fatto che il trattamento non è obbligatorio. Presto Szasz giunse alla conclusione che la malattia mentale è una finzione, la psichiatria è una forma di controllo sociale, fondata sulla coercizione e sull’inganno, mentre la psicanalisi, correttamente praticata, può assumere la forma di una conversazione confidenziale che può aiutare la gente a affrontare meglio i propri problemi.
Ma negli Stati Uniti, a differenza della tradizione europea, la psicanalisi non veniva praticata in questi termini: anche lo psicanalista era un medico libero di narcotizzare e ospedalizzare il paziente. Comunque, Szasz sapeva che avrebbe dovuto rafforzare la propria posizione ufficiale, prima di potere prendere una posizione critica apertamente in contrasto con le istituzioni che regolavano la vita del cosiddetto malato di mente. Dalla tragica vicenda del medico ungherese Ignaz Semmelweis (1818-1865), Szasz imparò molto presto che avere torto può essere pericoloso, ma avere ragione, in una società dove la maggioranza crede vero ciò che è falso, può essere fatale. In passato le false verità strutturali al sistema di credenze di un’intera società erano di natura religiosa, attualmente sono di ordine politico e medico. Il concetto di “malattia mentale” è un mito che, diversamente dalle malattie del corpo di cui vanno ricercate le cause e le cure, riguarda invece il comportamento, i cui motivi vanno “intesi e rappresentati nello stesso modo in cui il romanziere e il commediografo intende e raffigura i motivi e i comportamenti di personaggi immaginari”.

Virginia Woolf
Lo “stato terapeutico”
Per tutta la vita Szasz si è interrogato sulle interpretazioni dominanti della libertà, della responsabilità, della follia, della sessualità, della medicina e della malattia. Psichiatra e psicanalista divenuto radicalmente critico della psichiatria e della psicanalisi, e ritenendo la stessa malattia mentale un mito, una metafora, Szasz tuttavia, in nome del diritto naturale alla libertà, di cui è fermo assertore, difende la libertà di ciascuno di partecipare alle pratiche psichiatriche e psicanalitiche, allo stesso modo in cui siamo o dovremmo essere liberi di partecipare ai riti religiosi. Szasz, il cui pensiero si colloca nella tradizione del liberalismo classico influenzata da Thomas Jefferson, John Stuart Mill e Ludwig von Mises, crede nella separazione tra religione e stato, e dunque tra medicina e stato, psichiatria e stato.
Ciò che egli non accetta è la coercizione e la medicalizzazione della società. A nessuno deve essere imposto l’obbligo di consultare lo psichiatra, ricoverarsi, prendere farmaci, come non deve essere imposto di credere in un qualsiasi sistema di idee. Ciò che Szasz contesta è la coercizione, l’esercizio del potere, la prevaricazione sulla volontà dell’individuo. È favorevole, invece, a un rapporto consensuale. Quando pratica la psicoterapia, Szasz non si pone come “professionista della salute mentale”, ma entra in “conversazione” per ascoltare i problemi di ciascuno. In ambito di politica sociale, Szasz si è impegnato su vari fronti, con risultati diversi, battendosi, per esempio, contro la classificazione dell’omosessualità come malattia, la finzione che la circoncisione sia una pratica medica, l’ospedalizzazione forzata, il proibizionismo riguardo all’uso delle droghe, contro le varie forme di terapia sessuale, che egli ritiene forme di prostituzione e pornografia mascherate da “educazione per la salute mentale”.
Un punto fermo, a prescindere da quelle che sono le proprie convinzioni personali è, secondo lui, il fatto che lo stato non debba intervenire su questioni di ordine morale. Inoltre, mentre egli difende il diritto al suicidio, si oppone all’idea del suicidio assistito dal medico, considerandolo un’ulteriore forma di abuso di potere, in quanto, analogamente al processo di medicalizzazione del sociale, conferisce al medico il potere di gestire la vita altrui, collaborando anche alla libertà di morire. Famoso ormai a livello mondiale per la sua visione critica nei confronti delle pratiche psichiatriche e psicanalitiche, Szasz, come all’inizio del suo percorso, ancora oggi si oppone attivamente all’uso della coercizione e delle sue giustificazioni da parte della psichiatria, in quanto abuso comunemente praticato in nome della conoscenza scientifica. A questo proposito, i titoli dei suoi libri più recenti sono significativi: Psychiatry:The Science of Lies e Antipsychiatry: Quackery Squared.Szasz prende però anche le distanze da molte delle posizioni dell’“antipsichiatria”, quale risulta rappresentata da nomi importanti come David G. Cooper, che introdusse il termine nel 1967, Ronald D. Laing e lo stesso Michel Foucault (comunicazione email del 10 gennaio 2008).
Nel 1963 Szasz introduce l’espressione “stato terapeutico”, per indicare il potere politico del medico, in particolare dello psichiatra, che, in quanto agente dello stato terapeutico, può privare della libertà l’individuo giudicato una “minaccia per se stesso e per gli altri”, senza dover passare per il sistema legale. Szasz non accetta che lo psichiatra possa sostituirsi alla legge, decidendo sull’imputabilità di un crimine in base allo stato di salute o di malattia mentale dell’imputato. Inoltre, riconosce allo stato il diritto d’intervenire su questioni che riguardano la salute pubblica, per esempio, d’impedire la libera circolazione di una persona affetta da una malattia infettiva, ma non il diritto d’intervenire su questioni private, come, per esempio, l’uso di droghe. Bene/male, buono/cattivo, sicuro/pericoloso, rischioso/non rischioso non descrivono, dice Szasz, le qualità di una droga, ma semmai sono paradigmi che riguardano l’uso che se ne fa, che è una questione etica e non governativa.
The Myth of Mental Illness. Foundations of a Theory of Personal Conduct, pubblicato per la prima volta nel 1961, considerato ormai un classico, segnò una svolta nella vita di Szasz. In seguito alla pubblicazione di questo libro, egli fu censurato e osteggiato in vari modi, la sua libertà accademica fu minacciata da autorità garanti dell’igiene mentale pubblica . Szasz fu costretto a intraprendere le vie legali per difendersi dai continui tentativi di diffamazione. Riuscì comunque a svolgere il ruolo di psichiatra nella Upstate Medical University a Syracuse, New York, fino a divenire, nel 1990, professore emerito.
Il mito della malattia mentale, tradotto in molte lingue, fu originariamente pubblicato in italiano dal Saggiatore nel 1974. Lo stesso anno Szasz ne pubblicò una nuova versione (Harper & Row). Di questa nuova versione, e con una nuova prefazione dell’autore, uscì nel 2003 per la casa editrice Spirali la traduzione italiana, del tutto nuova, di Francesco Saba Sardi. Presso Spirali nel 1990 era stato pubblicato L’incapace. Lo specchio morale del conformismo, in cui sono raccolti alcuni interventi fatti da Szasz in Italia, a New York nel 1981, e in altri congressi internazionali; e successivamente, nel 2000, è uscito La battaglia per la salute, un libro che nasce dall’incontro con i giovani dell’Università internazionale del secondo rinascimento in occasione di un master da lui tenuto nel 1999.
Szasz ha introdotto nella lingua inglese altre due espressioni, oltre a the myth of mental illness, che, insieme a quest’ultima, lo hanno reso celebre: the therapeutic state, lo stato terapeutico, e pharmacracy, che fa da titolo al suo libro del 2001, Pharmacracy. Medicine and Politics in America (tradotto in italiano presso Spirali nel 2005). Szasz è autore di numerosi volumi, a cominciare dal libro già menzionato, Pain and Pleasure. A Study of Bodily Feelings, del 1957, e di numerosi saggi scientifici e di divulgazione. Ho conosciuto Thomas Szasz a Villa San Carlo Borromeo a Senago (Milano), dove ero stata invitata da Armando Verdiglione e Cristina Frua De Angeli a partecipare, con Augusto Ponzio, al congresso internazionale Medicina e humanitas. Aritmetica e cifratica della vita, che si svolse dal 28 al 30 novembre del 2003. Szasz lesse la relazione Perché ho scritto ‘Il mito della malattia mentale’ , a cui ho fatto riferimento sopra.
Nella sua presentazione al congresso, Verdiglione indicò Il mito della malattia mentale come uno dei libri più importanti del novecento e sottolineò la partecipazione di Szasz fin dai primi congressi ai laboratori intellettuali di Spirali, ricordando la reciproca collaborazione, ormai più che trentennale, sull’istanza di medicina e umanità. Al primo numero di “Spirali. Giornale internazionale di cultura”Szasz contribuì con l’articolo intitolato Una follia legale: la dissidenza. La psichiatria in Russia e negli Stati Uniti. “Altra cosa dalla battaglia per la salvezza”, dice Verdiglione, “è la battaglia per la salute intellettuale”. “In generale, invece”, dice Verdiglione presentando il libro di Szasz sul mito della malattia mentale, “il discorso della morte fa una battaglia per la salvezza e conduce sempre a terapie gnostiche, ‘riuscite’ e con pazienti deceduti”.
Ho invitato Thomas Szasz a tenere una lezione a studenti e docenti all’Università di Bari. Il 18 maggio del 2004, ha tenuto la conferenza Protolinguaggio, il linguaggio del corpo. Già era apparso in “Corposcritto” il testo di Szasz dal titolo Se vogliamo parlare senza infingimenti del suicidio (Straight Talk about Suicide), da me presentato e tradotto in italiano. Desidero concludere questa parte dedicata alla presentazione di Szasz e alla sua critica dello “stato terapeutico” citando ciò che di lui dice Armando Verdiglione in occasione della sua intervista del 2003: “Thomas Szasz è un grande combattente. Ha combattuto, nonostante l’ostracismo della cosiddetta maggioranza compatta, negli Stati Uniti, in Francia, in Italia, in Germania, nei vari paesi. Non parliamo dell’Unione Sovietica, dove non è mai stato tradotto, per ovvie ragioni, perché l’uso politico della psichiatria in Unione Sovietica non c’era neppure bisogno di affermarlo. Ma l’uso politico della psichiatria c’è anche nelle democrazie. Non c’è altro uso della psichiatria se non politico. Così della psicoterapia. Così della psicologia. Così di ogni volgarizzazione della psicanalisi che passa anche sotto la nazionalizzazione dell’inconscio”.
“La possibilità che Virginia abbia sofferto, più che per l’abuso sessuale, per un altro tipo di abuso”
La lettura — sia per il titolo che mi incuriosiva, sia per l’interesse per l’opera di Szasz — di “My Madness Saved Me”. The Madness and Marriage of Virginia Woolf, apparso nel 2006, suscitò in me come prima risposta l’idea di tradurlo in italiano. Tradurre da una lingua all’altra: un modo per mettersi in ascolto delle parole dell’altro e di leggere scrivendo, un modo per accostarsi all’altro, viaggiare in compagnia dell’altro, alla continua ricerca del senso — delle parole, della narrazione, del vivere, della relazione. Viaggio in cui nulla si può dare per scontato, viaggio non facile, ma seducente e vitale. Una modalità dell’intendimento in cui il testo in traduzione genera nuovi segni e sensi in continuo dialogo tra loro, complementari e complici nella costruzione di nuovi mondi che, contrariamente alla pretesa della chiarezza e della spiegazione, generano nuovi percorsi e nuove possibilità d’intendimento. In questo libro, ancora una volta, Szasz sviluppa la sua caustica critica della psichiatria e del “mito della malattia mentale” attraverso una puntuale e spregiudicata ricostruzione della vita di Virginia Woolf.
In ciò rivela una grande capacità di ascolto, disposizione che contrasta con il discorso dominante — nella critica letteraria, nella filosofia, nelle scienze umane e nella lingua comune — sul “genio malato”, sul rapporto tra malattia mentale e talento artistico. Nella seconda delle due conversazioni citate con Armando Verdiglione, Szasz, parlando di questo libro non ancora pubblicato, dice: “Il mio prossimo libro verrà pubblicato nel febbraio del 2006; parla della presunta malattia mentale di Virginia Woolf e del suo matrimonio con Leonard Woolf. Per metà è un’opera letteraria e per metà un’illustrazione, un’esemplificazione dell’idea che la cosiddetta malattia mentale non è una malattia, ma una relazione fra due persone, e tra loro e la società, e questo viene chiamato malattia mentale”.
Questo libro sulla follia e sul suicidio di Virginia Woolf ha un andamento, più che interdisciplinare, transdisciplinare, coinvolgendo discipline diverse quali la psicanalisi, la psichiatria, la medicina, la giurisprudenza, l’etica, ma anche la critica letteraria, la filosofia, la linguistica, women’s studies, cultural studies e, soprattutto, la scrittura, la scrittura letteraria; transdisciplinarietà anche nel senso che dall’ambito delle scienze, delle teorie e dai luoghi del discorso si sconfina verso la vita e la parola originaria. L’analisi di Szasz ha di mira le assurdità della “psicopatologia”, ma demolisce anche quel mondo di carta che la “cultura” erige sovrapponendo un soggetto mitologico, ottenuto con l’effetto del chiaroscuro (buono/cattivo, sano/malato, capace/incapace, integrato/disadattato), alla singolarità, all’unicità, all’incomparabilità di ciascuna vita.
Non si tratta solo del mito della “malattia mentale”, generalmente considerata un “affare altrui”, ma anche dell’identità sessuale, dell’appartenenza, dello stato civile, della funzionalità, dell’identificazione, del ruolo, della “sistemazione” professionale, insomma dell’“inserimento nel mondo”, che riguarda ciascuno, “genio” o “non genio”, “normale” o “anormale”. In discussione è non soltanto la visione psichiatrica e il suo impiego in quanto forma di controllo sociale; lo sono anche i luoghi comuni di cui essa si avvale e che impediscono l’incontro con l’altro nei termini di quello offerto da Szasz con una inedita, sconosciuta, inascoltata Virginia Woolf.
Refrattario alla separazione dei generi di discorso, questo libro fuoriesce dal genere saggistico e assume le movenze di una narrazione. In questo studio sulla follia e sul matrimonio di Virginia Woolf, “La mia follia mi ha salvato”, Szasz presenta una riflessione critica sui rapporti umani, rapporti che passano inevitabilmente attraverso la parola, che si costruiscono nella parola, la parola narrata. L’ascolto di Szasz è rivolto a Virginia Woolf, autrice e donna, come pure ai personaggi da lei inventati e al suo entourage della vita reale. Ne riprende le parole e riflette su di esse, attingendo tanto dalla scrittura letteraria di Virginia, dai suoi romanzi e racconti, quanto dalla scrittura non letteraria, dalle sue lettere, dai suoi diari, senza trascurare i discorsi dei biografi, degli stregoni della psichiatria e della psicanalisi psichiatrizzata, dei denigratori, degli ammiratori e degli emulatori di Virginia, dei critici letterari e delle femministe. Inevitabilmente, egli si scontra con l’arroganza della pretesa di sapere, di giudicare, di classificare, di assolvere e di condannare soprattutto da parte di coloro che Szasz smaschera come dilettanti e imbroglioni (si vedano, sotto questo aspetto, i testi in appendice, dove Szasz svolge senza mezzi termini la sua critica nei confronti dei ciarlatani della psichiatria e della psicanalisi).
Secondo Szasz, Virginia Woolf aveva assunto una posizione ambivalente nei rapporti con gli altri: come scrittrice sapeva che la malattia mentale non esiste, e considerava gli psichiatri degli “pseudomedici, inquisitori e carcerieri”; invece, nel ruolo sociale di moglie, sorella, cittadina sembrava accettare la realtà della malattia mentale e la legittimità della psichiatria come specialità medica. Szasz dà ragione a Virginia nel ritenere che la malattia mentale non esiste, come si può arguire da Mrs. Dalloway, e commenta così: “il che implica che i comportamenti (sbagliati), come quelli manifestati da lei stessa erano in senso forte ‘difetti’ del soggetto stesso; che le cosiddette malattie mentali sono problemi esistenziali e morali; che, insomma, il suo limite riguardava l’integrità, non la salute mentale… Virginia non voleva rinunciare al ruolo di paziente mentale nel 1913; non era pronta a rinunciarvi nel 1923; e si teneva stretta a esso nel 1941, quando si uccise”.
Virginia distingueva fra trattamento psichiatrico — a cui era pronta a sottoporsi pur essendone critica — e psicanalisi, che puntualmente evitava. Szasz fa presente che, nel 1917, Freud scriveva: “La psichiatria dice soltanto con un’alzata di spalle: ‘Degenerazione, disposizione ereditaria, inferiorità costituzionale!’. L’impresa della psicanalisi è spiegare questi stranianti casi di malattia…”. Il malato di mente è paragonato a un sovrano assoluto che non conosce la verità circa il popolo su cui sovrasta. Freud spinge “coloro che soffrono” a guardarsi dentro: “Ti comporti come un sovrano assoluto che si accontenta delle informazioni dei suoi più alti funzionari di corte e non scende tra il popolo per ascoltarne la voce. Entra in te, nelle tue profondità e prima impara a conoscerti, poi capirai perché devi ammalarti, e forse evitare di ammalarti”.
Ma secondo Szasz è precisamente ciò che Virginia non voleva fare, guardarsi dentro e conoscersi, e proprio per questo scelse di rendersi complice degli psichiatri nell’equivocare e negare il significato della  propria “malattia”: “Sigmund Freud voleva penetrare l’anima per scoprire i suoi segreti; Virginia Woolf voleva proteggere l’anima e i suoi segreti da sguardi indiscreti. Comprese e ha trasmesso a noi, come pochi altri hanno fatto, i pericoli dell’essere capiti, dell’avere ciò che ora chiamiamo ‘buone relazioni umane’”. Infatti, un grande merito di Szasz è quello di metterci in guardia contro l’arroganza del capire, del comprendere, dell’interpretare. Szasz riflette sul significato delle parole collegate con le questioni di cui si occupa: malattia, medicina, umanità, libertà, responsabilità, potere, psichiatria, corpo, mente, malattia mentale; e sul rapporto tra queste parole e ciò a cui rimandano in lingue diverse.
In inglese, fino al 1600, non esisteva il sostantivo mind, solo il verbo to di, custodire, badare a, fare attenzione, attendere a, stare in guardia. Nel suo intervento al congresso del 2003, a Villa San Carlo Borromeo, Perché ho scritto Il mito della malattia mentale’, Szasz dice: “L’inconscio freudiano è qualcosa che non c’entra con mind… da un punto di vista scientifico la mente non esiste più di quanto esista l’anima… Che cos’è lo studio della mente? Se la mente non esiste, come fa a ammalarsi? Quod erat demonstrandum. Fine della storia… Da oltre quarant’anni definisco questo lo stato terapeutico. Un tempo, c’erano gli stati teologici, la cui legittimazione e il cui funzionamento erano salvaguardati dall’idea di Dio, della religione e della Bibbia.
Questo viene oggi gradualmente sostituito dai criteri medici… anzi prevalentemente dai cosiddetti criteri psichiatrici”. Szasz ribadisce il suo rifiuto del ricorso alla coercizione nei confronti del cosiddetto “malato di mente”, dell’uso di psicofarmaci, del ricorso all’elettroshock, all’ospedalizzazione forzata, e ribadisce di non riconoscere la condizione di malattia mentale. “Tutto il mio lavoro verte intorno alla constatazione che l’infermità mentale non esiste, come non esiste la stregoneria. Come non esiste l’unicorno. In altre parole, non si può provare di una persona la salute mentale perché non si può provare l’infermità mentale”.
In risposta alla mia domanda se ci fosse una ragione perché nel libro sulla follia di Virginia Woolf non usasse mai il termine “psicopatologia”, Szasz chiarisce che “il termine ‘psicopatologia’ conferisce un’aria di legittimità medica al fenomeno, che, invece, è del tutto assente nella espressione ‘malattia mentale’ — che resta vaga e quasi vacua, priva di senso. In tutti i miei scritti, evito termini medici (o che risuonano in senso medico), tranne che in riferimento a malattie reali”. E infatti, in una comunicazione successiva, egli torna a ribadire che “tutta la questione di questo libro è che Virginia Woolf non era una donna ‘malata’, ‘folle’; era una persona orgogliosa, indipendente”. Sicché nella stessa lettera Szasz mi suggerisce di “avvertire il lettore che le scelte linguistiche sono molto importanti, sottilmente comunicative”.
Interessanti a proposito dell’attenzione di Szasz alle questioni linguistiche sono i suoi commenti riguardo alla scelta del pronome da usare in un discorso dove l’opposizione maschile/femminile non è pertinente. In risposta alle mie osservazioni intorno all’uso di termini come “uomo” in italiano e man in inglese con il significato generale di ánthropos, non quindi in contrapposizione a gyné, Szasz osserva che: “1. La formula he/she è una farsa. Ti immagini se l’avesse fatto Shakespeare? Il political correctness al peggio. 2. Aggiungere sempre she — un’alternativa che ora molti scrittori americani adottano — non è meno sessista. Anzi è l’esatto opposto. 3. La lingua ungherese: lo sai che non ha forme grammaticali distinte per indicare i generi? (Il genere deve essere inferito dal contesto, dalla situazione). E naturalmente la cultura ungherese non era/è esente dal sessismo; il fatto che la sua lingua non abbia il genere, non abbia l’equivalente di he e she non comporta affatto che sia meno sessista di altre lingue”.
La “follia” di Virgina Woolf, immediato oggetto di studio, ma anche pretesto per esplorare i labirinti della vita psichica, fatta di discorsi ufficiali, di luoghi comuni, di discorsi non ufficiali, inespressi o inesprimibili della vita inconscia, della materia non semiotizzabile. Proprio ciò che rappresentiamo come definito, preciso, integro, sfugge al controllo della coscienza, precipita nel vuoto del differimento infinito tra segni e resiste alla presa della lucida e rassicurante conoscenza, alla soffocante arroganza, alle pretese di padronanza.
Nel mondo globalizzato ormai in piena crisi, si diffonde sempre più la moda della seduta psicanalitica. Oggi, in un mondo sempre più consumistico, vulnerabile e medicalizzato, il linguaggio psichiatrico, terapeutico, come pure la pratica della psicanalisi a esso uniformata, piace e fa moda. Ma quale psicanalisi? Intanto bisogna ricordare che Szasz vive e scrive negli Stati Uniti, il suo riferimento è l’esperienza psichiatrico-psicanalitica americana. In ogni caso egli è sempre pronto a evidenziare le fondamentali differenze tra psichiatria e psicanalisi, psichiatra e psicanalista, e a mettere in guardia contro la tendenza piuttosto diffusa a confondere le due pratiche. Szasz interroga la natura del rapporto tra medico e paziente, e si chiede se favorisca o meno nel paziente lo sviluppo della consapevolezza e quindi la condizione di libertà, di responsabilità, o, al contrario, se non sia il medico l’unico a trarne vantaggio.
Certamente, realizzare un rapporto di potere sul paziente preclude ogni possibilità di aiutarlo. Szasz denuncia i rapporti di potere che vengono a instaurarsi tra medico e paziente, soffermandosi sugli abusi da parte dello psichiatra nei confronti dell’individuo stigmatizzato come malato di mente: l’uso della psichiatria per sorvegliare e controllare e eventualmente privare l’individuo della propria libertà. “La malattia maniaco-depressiva è la razionalizzazione e la giustificazione medicoterapeutica della violenza fisica e dell’aggressione contro il ‘paziente’”, dice Szasz nell’appendice a “La mia follia mi ha salvato”. A Virginia Woolf fu diagnosticata questa malattia, il che legittimava il rapporto di continuo controllo e sorveglianza praticato nei suoi confronti da parte del marito Leonard e dei suoi delegati.
Ma il cattivo uso della psichiatria è imputabile anche al malato che, a sua volta, vi ricorre come mezzo per esercitare la propria volontà di controllo sull’altro, magari facendo intravedere la prospettiva del suicidio. Nell’interpretazione di Szasz, Virginia aveva sposato Leonard senza amarlo. “Si sentiva in colpa e si puniva con l’agire da folle, con l’essere folle e lasciandosi umiliare da Leonard e dagli psichiatri che egli aveva attentamente scelto. Il ritratto dello psichiatra fatto da Virginia in Mrs. Dalloway non può lasciare alcun dubbio circa il fatto che avesse capito sin troppo bene che cosa fosse e che cos’è la psichiatria”.
Il mondo della globalizzazione, della comunicazione globale, si contraddistingue per un paradosso: la sempre più diffusa condizione di alienazione sociale, di alienazione linguistica, come diceva Ferruccio Rossi-Landi (1968, 1972, 1978). In altre parole, quanto più si afferma l’ideologia dell’“essere collegati” grazie agli odierni mezzi di comunicazione, tanto più, sul piano dell’umano, si verifica una situazione di separatezza e d’isolamento. È interessante che nel romanzo 1999. L’uomo che voleva essere guarito Georges Mathé narri del “male globale”, che comporta il bisogno d’interrogare il proprio progetto di vita e quindi la complessiva programmazione sociale di cui fa parte — nessun malato, nessuna cura, nessuna medicalizzazione. Nell’era del mercato globale, la dimensione del rapporto intercorporeo svanisce nell’etere, dissipata dal vorticoso consumo di cose, persone, relazioni, desideri. Questo libro di Szasz, in una situazione di disagio provocato dalla mercificazione dei rapporti, dai processi di disumanizzazione del quotidiano, suscita particolare interesse, tanto più per aver assunto, come immediato oggetto di studio, il caso di un personaggio famoso come Virginia Woolf, in cui s’incontrano, nell’immaginario popolare, genialità e follia.
“Un agente morale che usava la malattia mentale, la psichiatria e il marito”
Il punto centrale dello studio su Virginia Woolf da parte di Szasz, che è anche la sua motivazione e la sua tesi, è la concezione dell’io come “agente morale”, come soggetto consapevole, capace di padroneggiare se stesso e l’immagine che presenta agli altri. Szasz vuole liberare Virginia dal luogo comune di vittima della malattia mentale e riabilitarla come agente morale responsabile delle proprie scelte e dei propri comportamenti. Ciò è in linea con la concezione di Szasz circa “libertà”, “responsabilità” e “volontà” individuali.
Per Szasz la “malattia mentale” non esiste come oggettiva condizione patologica da curare, esiste invece il comportamento socialmente accettabile o meno. Tuttavia, egli non tiene conto del fatto che la sua interpretazione di concetti come quello di libertà presuppone la “padronanza” nei termini teorizzati da Armando Verdiglione, presuppone il “proprio” corpo, le “proprie” parole come proprietà, possesso. Ciò finisce per legittimare l’imputazione di follia e di alienazione intese come perdita di padronanza, di controllo sul “proprio” corpo. Senonché, come ora vedremo, è pazzo, dice bene Verdiglione, con Machiavelli, chi crede di fare ciò che vuole. Al tempo stesso, Szasz ha ragione quando respinge con forza la tendenza a “depersonalizzare” il comportamento “socialmente deviante” nel momento in cui tale comportamento viene interpretato riduttivamente nei termini di una qualche tipologia prestabilita di malattia mentale.
Gli psichiatri hanno dei criteri per diagnosticare la malattia mentale, vere e proprie gabbie interpretative, ma in questi criteri non rientra “la capacità di trovare un significato nella follia” nonostante l’esempio di personaggi come William Shakespeare e Sigmund Freud. Perciò, solo quando ci saremo liberati degli “inquisitori psichiatri” sarà finalmente possibile fare qualcosa per chi viene stigmatizzato come “malato mentale”. L’idea del “genio folle” ha lo scopo, dice Szasz, di “rendere il soggetto meno ammirevole come persona e meno responsabile del proprio comportamento come agente morale… L’idea della malattia mentale è proprio rivolta a minare questa concezione dell’uomo come agente morale, come attore responsabile sul palcoscenico della vita… L’individuo come agente morale sceglie sempre il proprio stile di comportamento, nella salute e nella malattia mentale, nell’arte e nel lavoro”. E per quanto concerne Virginia: “Virginia Woolf non era vittima né della malattia mentale, né della psichiatria, né del marito — i tre modi secondo cui è abitualmente descritta. Invece, era una persona intelligente e capace di imporsi, un agente morale che usava la malattia mentale, la psichiatria e il marito per foggiarsi la vita che si era scelta. Ciò non significa attribuirle una sorta di libero arbitrio illimitato e neppure negare l’impatto profondo che ebbe su di lei e sulle scelte di vita che le si prospettarono l’ambiente sociale e culturale in cui crebbe e visse. Si tratta soltanto di non dimenticare la supremazia del suo io come agente morale attivo, orientato verso uno scopo, in egual misura responsabile della propria ‘creatività’ e della propria ‘follia’”. Il tema della libertà come anche della responsabilità sono costanti nella riflessione di Szasz. Egli definisce la propria “concezione ungherese di libertà”, vale a dire quella di un paese che è stato sempre oppresso e occupato da altri, sicché la libertà è intesa come libertà dall’invasione e dall’invadenza altrui.
Negli Stati Uniti, invece, la libertà è intesa in termini d’indipendenza. Ma anche qui la libertà individuale, dice Szasz, è minacciata, è minacciata dallo “stato terapeutico”, espressione da lui stesso coniata per indicare una forma moderna di totalitarismo. Esistono almeno due modi di perdere la propria libertà: essere rinchiuso in un carcere o essere internato perché ritenuto folle. Ma se la follia è una malattia mentale, essa non esiste, perché, come abbiamo già osservato, la mente non esiste. Esistono, invece, il potere e la coercizione. E Szasz descrive il rapporto storico tra malattia-potere-religione-medicina. Fino ai tempi moderni, così come non era legittimo liberare la Bibbia dalle lingue sconosciute in cui era stata scritta traducendola nelle lingue popolari, allo stesso modo il cadavere doveva rimanere rinchiuso nella propria sacralità, indecifrabile. Solo con i progressi della ricerca scientifica, prefigurati dagli studi di uomini come Leonardo da Vinci, fu finalmente possibile “figurare e descrivere” il cadavere per meglio conoscere il corpo e andare incontro alla vita.
Dell’anatomia. Figurare e descrivere è il titolo del capitolo dedicato all’anatomia in Leonardo da Vinci di Armando Verdiglione. “Adunque è necessario figurare e descrivere”, dice Leonardo. L’anatomia di Leonardo è scrittura, in quanto procedura intesa al discrimine, alla discriminatura, al discreto. Il taglio è l’artificio dell’anatomia, distacco dal naturale, la sua qualità specifica, la sua cifra, che rende raffigurabile l’irrappresentabile, la sembianza.
Ma allora, un altro senso di “libertà” si delinea, rispetto a quelli indicati da Szasz: la libertà come virtù del principio della parola, come libertà della parola. Essa investe la cifra, la particolarità della vita, l’ascolto. Ma, dice Verdiglione, “Tutto il discorso occidentale è senza l’ascolto perché pone alla base dell’ascolto il rapporto sociale, il dispositivo sociale, il dispositivo conformista, il rapporto medico paziente, anziché il dispositivo di parola”.
La libertà è una virtù della parola, e il rinascimento consiste anche nel riconoscere ciò. Come pure esso, con Leonardo da Vinci, con Machiavelli e con Ludovico Ariosto, riconosce che — proprio diversamente da quanto vuole farci credere il discorso dominante, quando definisce la libertà come libertà del soggetto, come la condizione di poter fare ciò che si vuole — la pazzia consiste nel credersi padrone di fare quello che si vuole. Machiavelli nei Discorsi diceva che “un principe che può fare ciò ch’ei vuole, è pazzo”. In effetti, come fa notare Verdiglione, nessuno può fare, può permettersi, ciò che vuole, né il principe, né il moralista che dice cosa si deve fare e non si deve fare.
Il soggetto, padrone di sé, del proprio corpo, delle proprie parole è un prodotto dell’epoca moderna in reazione al rinascimento, e risale invece a Cartesio e a John Locke. Al soggetto viene attribuita la libertà come suo possesso e dotazione. In apertura alla seconda giornata del congresso Medicina e humanitas. Aritmetica e cifratica della vita, del 2003, riprendendo il discorso di Thomas Szasz della seduta inaugurale del giorno prima, Verdiglione notava che la libertà come virtù del principio di parola è ben altra libertà da quella rivendicata da Szasz, che è la libertà dell’Habeas corpus, della Magna Charta, dell’illuminismo scozzese, la libertà sancita dalla Costituzione americana, libertà ancora “epistemica, gnostica, aristotelica”.
Szasz rivendica l’idea del soggetto individuale come agente morale, responsabile, libero di gestire il proprio corpo come vuole, anche di decidere la propria morte suicidandosi: “L’idea che siamo noi i padroni e i responsabili di noi stessi e del nostro corpo è un’idea antica, di matrice anglosassone, risalente a John Locke, della seconda metà del seicento, e ancor prima alla Magna Charta.
Tale idea implica il concetto politico per cui ciascuno è padrone del proprio corpo, e deriva dal tradizionale concetto medico — che ancora si riferisce alle leggi angloamericane — secondo cui non si può toccare un paziente senza il suo consenso”. Ma la libertà di morire risponde a una scelta obbligata. Commenta Verdiglione: “Altra è la libertà: una virtù del principio della parola, una virtù della parola. Non è una proprietà del soggetto, creatura gnostica dell’epoca moderna, in reazione al rinascimento prima, da parte dell’ideologia della riforma con Cartesio, e all’indirizzo illuministico romantico dopo, con Hegel e l’ideologia romantica. Questo soggetto è soggetto alla morte. La libertà è libertà di morire. Libertà come morte”.
Soggetto, libertà, possesso, corpo come proprietà, padronanza: la provenienza è lontana. Dice Eraclito: “la massima virtù è la padronanza di sé”. Ciò già indica, commenta Verdiglione, l’idea di sé, di rappresentazione di sé, la rappresentazione dell’ostacolo. Padronanza di sé come caratterizzazione della libertà di ognuno. È libertà come proprietà del soggetto, libertà come padronanza, libertà di fare quello che si vuole. “Ognuno fa ciò che vuole: è questa la tesi, fra Aristotele e san Tommaso. È soltanto Machiavelli a dire che chi fa ciò che vuole è pazzo. È soltanto Machiavelli a dire che la politica aristotelica è pazza. Ma è la politica che ancora viene praticata, non è la politica di Machiavelli”. Verdiglione ironizza: “Thomas Szasz si trova in America, quindi fa l’americano, deve riferirsi alla Scozia, a John Locke.
La libertà, la tolleranza, il diritto, secondo John Locke. Però, Szasz fa alcuni libri di notevole interesse, poi ci sono obiezioni che noi rivolgiamo a questi libri, ma proprio rispetto a questo riferimento, che è un riferimento al discorso occidentale. Ciò non toglie che abbiano elementi d’interesse Lo stato terapeutico (1984) e Il mito della psicoterapia (1978), anche se ingloba anche Freud nella psicoterapia, ma nella psicoterapia ingloba Freud, così come è diffuso in tutto il pianeta, come se si trattasse di psicoterapia”.
Nelle sue riflessioni sul titolo del congresso Medicina e humanitas. Aritmetica e cifratica della vita, Verdiglione faceva notare che humanitas non è l’umanesimo degli umanisti: un conto è l’umanesimo degli umanisti “epistemici, aristotelici, gnostici, ontologi”, un altro è l’umanesimo di Leonardo. All’umanità attiene ciò che può essere indicato come rinascimento: “qualcosa che attiene all’umanità, al terreno dell’Altro”. “Niente umanità con il principio del terzo escluso. Se l’Altro viene espunto, può essere rappresentato come diverso, tollerato come diverso, canonizzato come vittima. Che non ci sia più l’espunzione dell’Altro è essenziale per ben altra umanità, per ben altra tolleranza, per ben altri dispositivi, anzitutto rispetto alla libertà cui accenna Thomas Szasz. La libertà come virtù del principio della parola”.
Con l’instaurarsi del rapporto di potere sul paziente piuttosto viene a mancare il dispositivo di parola, il dispositivo di ascolto. Ma non può esserci cura senza dispositivo di ascolto, senza dispositivo di parola, senza dispositivo intellettuale. “Tutto viene delegato all’apparato e al farmaco. Gli officianti diventano intermediari, mediatori con una delega. Il medico, talora, delega tutto al farmaco, allo psicofarmaco o all’apparato. Come può avvenire una cura senza la parola? Sarebbe stato assurdo nella scuola di Crotone e sarebbe assurdo oggi, senza la parola”.
In questo senso Verdiglione, utilizzando il titolo del libro di Szasz, La battaglia per la salute, parla di “battaglia per la salute intellettuale”, che non è la “salute perfetta”, come scrive Lucien Sfez nel libro La salute perfetta. Critica di una nuova utopia39, tanto meno la salvezza. Niente unità ideale, niente comunità fondata sulla logica dell’identità, sul sacrificio dell’altro. Ogni comunità produce il suo extracomunitario, l’altro non assimilabile, l’altro sacrificato, il nemico.
Dalla logica dell’identità nasce ogni sorta di razzismo, antisemitismo, nazionalismo, patriarcato, ogni sorta di moralismo e di dogmatismo: “Il secondo rinascimento. Rinascimento originario. Rinascimento della parola. Industria della parola. E cifratura della parola. Le cose procedono dall’apertura, dal due, anziché dall’uno. Non hanno da inseguire nessuna unità ideale, in nome della quale si crei il vittimismo. Non c’è nessuna vittima da sacrificare. Non c’è più vittima”.
La parola procede da una situazione di alterità assoluta, dalla cura, che non è né rimedio né terapia, in cui non c’è né possesso né controllo, ma piuttosto accostamento, ascolto, interlocuzione. Niente logica binaria, nessuna opposizione né tolleranza, niente interrogazione in cui la domanda contiene già la risposta: la logica del terzo escluso genera antagonisti e rapporti in cui ognuno mira a prevaricare sull’altro, nella migliore delle ipotesi a omologare e neutralizzare l’altro.
Di qui il passo alla narcotizzazione di massa è breve: l’oppio, la religione, il rapporto istituzionale, la medicina ufficiale. L’irrappresentabilità dell’alterità assoluta comporta l’affrancamento dalla logica binaria oppositiva, la logica delle alternative buono/cattivo, bene/male, sano/malato, tollerante/tollerato, normale/anormale. Non c’è padronanza, non c’è altra proprietà, dice Verdiglione, che la proprietà intellettuale come risposta alla questione come vivere, ovvero quali sono le proprietà del nostro viaggio, come giungere alla qualità, alla cifra. L’autonomia dell’io è richiesta — è richiesta “umanisticamente”— in nome di un’eguaglianza contrattuale.
Il soggetto è il contraente e la sua proclamata autonomia fornisce lo statuto della dipendenza, la sua strumentalizzazione per la trasmissione di modelli, per la riproduzione dell’ordine costituito. Il contratto presuppone il dominio dell’uno sull’altro, e, aggiunge Verdiglione riferendosi alla posizione di Thomas Szasz, “non è il superamento dei modelli coercitivi (come vorrebbe Szasz), ma il loro sostegno”. Ciò comporta una concezione dell’analisi e dell’analista diversa da quella prospettata da Szasz: “Se la condotta dell’analista fosse guidata da un codice (ermeneutico, morale, politico…), la sua funzione rimarrebbe quella di sostegno dell’operazione psichiatrica. Se l’analista fosse l’agente del paziente (Szasz), utilizzerebbe la domanda in funzione contrattuale e non sarebbe per nulla diverso da un funzionario.
In definitiva, se s’instaura, la funzione di potere dell’analista può diventare più importante di quella istituzionale: e persino il silenzio può assumere allora, come lo sguardo, la funzione classica d’interrogazione”. Suicidio e padronanza, un paradosso del discorso occidentale Semioticamente parlando, l’azione e la reazione all’azione fanno parte di una catena di azioni e reazioni precedenti, sono una risposta a esse, come tutte le nostre azioni e reazioni, e il tutto ha luogo in un contesto — di ordine antropologico, politico, economico, storico, sociale, culturale, ideologico. L’azione del suicidio e le risposte che provoca non fanno eccezione, anch’esse sono la risposta a sollecitazioni, e nascono in contesti sociali orientati secondo determinati valori e ideologie.
E quando parliamo di “azioni” e “reazioni” o “sollecitazioni” e “risposte” non si tratta di descrivere comportamenti umani in termini meccanicistici, tanto meno biologistici, come è tipico, invece, di certi comportamentismi. Lungi dal trattarsi di reazioni immediate, persino organiche, l’azione e la risposta da parte dell’individuo sono interpretazioni, mediate da segni, del proprio ambiente che è fatto di oggetti, comportamenti, persone, valori, orientamenti, eventi, a loro volta interpretazioni segniche, mediate da altri segni, valori e ideologie, di altrettante sollecitazioni in una rete aperta di relazioni interpretative. Bisogna che nel discorso dominante ci sia “un soggetto ideale che assuma tutta la positività”, che faccia da specchio morale del conformismo in modo che qualche soggetto se ne assuma la negatività. Rispetto al soggetto ideale, responsabile, capace, forte, efficiente, un altro soggetto risulta e persino si riconosce irresponsabile, incapace, debole, deficiente.
Critico dei dogmi e dei pregiudizi sociali, siano essi quelli consolidati dal “buon senso” ordinario o quelli avallati da qualche credenza pseudoscientifica, Szasz nei suoi scritti evidenzia con chiarezza il carattere mistificatorio del modo comune di pensare, di dire e, di conseguenza, di trattare il fenomeno del suicidio. Nei suoi scritti, infatti, egli evidenzia l’importanza del linguaggio, del modo in cui le cose vengono dette, quindi degli usi e degli abusi dei nostri costumi linguistici, prendendo posizione critica sia contro le definizioni ufficiali della malattia mentale sia contro il linguaggio comune che pretende di parlarne.
Il linguaggio comune rientra nello “standard” e “Lo standard fa ordine, lo standard è la pazzia. Gratuita”, dice Erik Battiston in La vita oltre lo standard. “Lo standard non è mai imposto. È prima somministrato e, poi, naturalmente accettato perché gratuito, perché è il modo comune, il modo della partecipazione. ‘Ne parliamo democraticamente’… Certo, basta parlarne. Basta discuterne. Ma questo ‘basta’ è significato dal principio di sufficienza. Così basta. Basta così! ‘Basta’ è sufficiente per mettersi d’accordo. Più o meno”. Szasz è radicalmente critico della psichiatria e degli psichiatri, che egli accusa di un cattivo uso del linguaggio collegato con la diffusa ideologia della medicalizzazione della vita che controlla gli individui negando loro la possibilità di scelta responsabile e libera.
Egli evidenzia le mistificazioni che stanno alla base della progettazione delle pratiche sociali valutate come “normali” e della giustificazione “scientifica” delle ordinarie modalità di trattamento di chi è stigmatizzato come malato mentale, con tutti i risvolti e le implicazioni che tale connotazione ha, non solo sul piano della vita ordinaria e nel settore della clinica, ma anche nel sistema giudiziario e nel modo di concepire, prevenire o punire il comportamento criminale.
Szasz distingue tra malattia e comportamento, sostenendo che uno dei limiti del linguaggio psichiatrico consiste nell’applicare figure metaforiche tratte dal vocabolario della malattia a ciò che è comportamento, per discriminare comportamenti devianti che variano dal meramente eccentrico al criminale, semplicemente sulla base della confusione tra descrizione della malattia e valutazione di ordine morale, etico, ideologico e politico.
Non si fa un solo passo nella comprensione del fenomeno del suicidio dando a esso un giudizio di valore, spesso pregiudiziale, ghettizzandolo e esorcizzandolo come sintomo di malattia mentale, trattabile mediante farmaci “antidepressivi” e l’isolamento dell’ospedalizzazione. La diffusa plausibilità di tali soluzioni dipende dal fatto che si tratta di risposte facili e spesso di comodo.
Contrariamente a coloro che ne affermano il carattere di malattia mentale, di ordine chimico-organico, che lo considerano sintomo di crisi maniaco-depressiva o lo additano come perversione del modo naturale di rapportarsi alla vita, che lo condannano come offesa nei confronti dei perbenismi borghesi e delle varie ipocrisie giustificate dalla giusta difesa di interessi egoistici e dal “sano” conatus essendi, anche il suicidio viene considerato da Szasz come azione razionalmente motivata, messa in moto da un piano non meno razionale di quelli che la società approva perché ne confermano l’ordine e rafforzano il sistema che ne regola i rapporti.
Il suicidio è un fenomeno sociale più che mai presente nel nostro mondo globalizzato, dove alle cause dell’invivibilità della vita nel benessere e della sua invivibilità nella sofferenza, nella miseria, nella malattia, si aggiungono quelle della sperequazione sempre maggiore tra sviluppo e sottosviluppo, tra ostentazione di un potere incontrastabile e impotenza di chi lo subisce senza tuttavia volersi rassegnare e vi reagisce nelle forme più disperate, ma non per questo “anormali”, “irrazionali”, “fanatiche”, “vili” se non agli occhi di chi ha interesse a difendere a tutti i costi, fino a mentire a se stesso, il “proprio stile di vita”, che naturalmente è normale, razionale, realizzato all’insegna della libertà e della democrazia.
Sia il suicidio malgrado il “benessere”, sia il suicidio dovuto “soltanto” a “fanatismo” hanno le loro motivazioni; e si tratta di motivazioni di ordine sociale — economico, ideologico, politico, religioso, giuridico, medico — che riguardano le modalità in cui sono strutturati i rapporti interumani. Si tratta dunque d’indagare in maniera spregiudicata, il che vuol dire effettivamente scientifica, le ragioni del suicidio nei suoi molteplici aspetti e contesti. L’azione del suicida, come tutti i comportamenti deviati, va analizzata in rapporto ai vari fattori e valori del contesto sociale, oggi in rapido mutamento, che orientano i nostri comportamenti e contribuiscono a determinare le nostre scelte — fattori economici, personali, legali, politici.
Il suicidio, come il terrorismo con cui oggi lo vediamo strettamente collegato, va considerato — è questa in sintesi la tesi di Szasz — nel suo carattere essenziale di risposta comportamentale al sociale, al proprio contesto ideologico e culturale, e non semplicisticamente come espressione deviata dovuta a qualche alterazione patologica interna, di ordine “organico” o “psichico”. Nel testo Se vogliamo parlare senza infingimenti del suicidio, scritto in risposta all’attacco dell’undici settembre 2001 alle torri gemelle, Szasz s’interroga sul suicidio con specifico riferimento ai terroristi suicidi. Contro le dichiarazioni superficiali degli imbroglioni, dei mistificatori, degli ottusi, dei tuttologi e di coloro che riescono sempre a avere la coscienza in pace, egli afferma il bisogno di un pensiero critico, scientifico e razionale.
È necessario considerare criticamente il terrorista suicida e quindi il terrorismo — compito tanto più arduo e scomodo quanto più ci costringe a guardare al di là dei limiti delle eventuali ragioni personali, per interrogarci sulle grandi progettazioni sociali, i nobili fini e le azioni umanitarie (con i loro “effetti collaterali” del mondo “democratico”, rispetto al quale il terrorismo si presenta come sintomo e risposta). Sempre, i nostri cosiddetti esperti, i nostri politici, gli economisti, i commentatori di vario genere e competenza nelle loro analisi sono partiti dal punto sbagliato: il terrorismo suicida come causa, sfruttata per giustificare “guerre preventive” e “interventi terapeutici”, anziché come risposta, sia pure non condivisibile — ma questa è un’altra questione — a sua volta in una catena di risposte.
Senza cercare facili soluzioni di comodo, rifugiandoci nell’idea della malattia mentale e dei vari fanatismi, se vogliamo dare un valore alla vita, impegnarci a prevenire il comportamento deviato, contribuire alla costruzione di un mondo secondo il principio dell’ascolto dell’altro, la domanda molto semplice da fare è: che cosa spinge al suicidio? Che cosa spinge un ragazzo o una ragazza alla decisione di farsi esplodere?E quindi, quali sono le ragioni del suicida e, nel caso specifico discusso da Szasz, quali sono le ragioni del terrorismo come oggi si va configurando?
La libertà come proprietà del soggetto, come padronanza, come libertà di fare ciò che si vuole si manifesta e si afferma, in ultima analisi, come libertà di morire. Ne è espressione la rivendicazione del diritto al suicidio. È certamente notevole e coraggiosa la presa di posizione di Szasz contro la ghettizzazione e l’esorcizzazione del suicidio — in quanto sintomo di malattia mentale, da trattarsi mediante farmaci antidepressivi e l’isolamento dell’ospedalizzazione — e il suo impegno per il riconoscimento del suicidio come azione razionalmente meditata, messa in moto da un piano non meno razionale di quelli che la società approva, perché ne confermano l’ordine e rafforzano il sistema dei suoi rapporti “normali”.
Ma, come rileva Armando Verdiglione, è ritrovabile nella posizione critica di Szasz ancora l’idea della libertà come proprietà naturale, e anche l’idea del corpo come possesso del soggetto, che ne può disporre a suo piacimento. Le due cose sono collegate: l’idea del soggetto e della libertà come sua dotazione naturale implica il fantasma del possesso, della padronanza. “Nessuno stato, nessuno psichiatra, nessun poliziotto”, dice Verdiglione, “può con la forza rinchiudere e sequestrare una persona perché ha la propria idea di suicidio.
Ma che la libertà sia quella di morire è la suprema padronanza che il discorso occidentale, come discorso della morte, ha affidato al filosofo, all’uomo perfetto. Entriamo così nel paradosso del discorso occidentale”. Malattia mentale e follia. Disagio, virtù della parola Un altro elemento di discussione a cui accennare in riferimento al libro di Szasz è il rapporto tra malattia mentale e follia. Per Szasz, il mito della malattia è anche il mito della follia, del genio folle. Ma come osserva Ruggero Chinaglia nel testo L’istante della clinica, “Sin dal sorgere dell’esperienza cifrematica, abbiamo distinto tra follia e pazzia”.
La follia è “il modo con cui procede il cammino artistico di ciascuno. Questo situa la follia nella particolarità della parola e implica che lo statuto intellettuale, scientifico di ciascuna cosa è anche secondo la follia; ne deriva l’esigenza di ricerca e di ascolto, d’intendimento e di cifratura: nessun soggetto folle, quindi, ma la follia come proprietà oggettuale, di cui si tratta di cogliere la varietà d’intervento e la specificità”.
Invece, nel testo La clinica della parola, Sergio Dalla Val scrive: “Considerata malattia, la follia diventa visibile, può essere sottoposta allo sguardo medico, all’occhio clinico, a quel principio del tutto osservabile, dunque dell’osservanza, su cui il potere statale si fonda”. Come dice Armando Verdiglione nella sua relazione tenuta al convegno Psicanalisi e politica, il primo da lui organizzato, l’8-9 maggio 1973, “Lo psichiatra è garante e gestore della produzione della malattia, è un ‘osservante’…”.
Come Verdiglione faceva già notare in alcuni suoi appunti redatti subito dopo lo svolgimento del congresso La follia (Milano, 1-4 dicembre 1976) e riportati in La mia industria, l’espulsione della follia, soluzione di alcuni regimi politici, data l’impossibilità della sua amministrazione, si converte, tramite il riconoscimento dell’inesistenza della malattia mentale, nella sua negazione insieme a quella della malattia mentale, perpetuando un antico esorcismo.
L’attribuzione della follia da parte della mitologia psichiatrica è collegata con l’assegnazione di ruoli e di posti, con l’idea di padronanza, con la proprietà e l’appropriazione, con la denominazione e la personificazione di ciò che è irrappresentabile. La follia è inattribuibile e insituabile in quanto è collegata con la irriducibile materialità della parola. “Il disegno di Escher”, scrive Verdiglione riferendosi alla figura riprodotta sul manifesto del congresso La follia, “allude a un circo come metafora, preso in un nastro di Möbius togliendo qualsiasi contemplabilità delle immagini perché semoventi e altre, non disposte a vestire l’abito del buon senso secondo la linea circolare”. Nel testo La vita originaria Verdiglione scrive: “Se la conversione della pazzia in malattia mentale decide definitivamente di attribuire il disturbo al soggetto, la follia è la condizione del cammino artistico. La follia sottratta all’animale anfibologico. Non è la follia paolina e nemmeno la follia della strega. La follia è sottratta alla definizione che ne farebbe il limite della ragione. Non più funzione e limite dell’economia discorsiva. La follia è inattribuibile al soggetto”.
La follia va con il rigore. “Viaggia chi è senza genealogia, chi procede dall’apertura originaria, trovando la sua condizione nella follia e nel rigore. Condizione sua e del viaggio”. Non c’è viaggio intellettuale senza follia e senza rigore. La follia non è soggettiva, ma oggettuale, risponde alla struttura materiale della parola; “follia e… rigore… sono le condizioni del dispositivo di parola”. La follia e il rigore, da oggettuali, subiscono una soggettivizzazione, e mentre il rigore si tramuta in severità, in rigidità, quali prerogative del soggetto, la follia si tramuta in malattia. Dice Verdiglione: “Che cosa la mitologia medica e psichiatrica chiama psicosi? Qual è il disturbo assoluto per tale mitologia? È la materia. La materia della parola, irriducibile al concetto, alla convenzione, al naturale, al codice”. Nel discorso dominante, la follia, come lo stress psichico (a cui fu dedicato un congresso internazionale dal titolo Stress. La clinica della vita), è collegata con la nozione di soggetto, sarebbe nel soggetto, sarebbe una proprietà del soggetto.
Si tratta di mettere in discussione la mitologia della follia e la mitologia dello stress con i loro professionisti e funzionari che su tali mitologie prosperano, il che significa mettere in discussione la mitologia del soggetto, la mitologia della sua rappresentazione, della sua identità, della sua appartenenza, e dunque della rappresentazione dell’alterità, della sua definibilità, giudicabilità. “Con l’illuminismo incomincia a stabilirsi il ‘luogo’, quindi la reclusione, rispetto a un problema sociale. Il presunto malato di mente veniva terrorizzato perché trovasse l’illuminazione giusta. Dal rinascimento e dall’illuminismo in poi, c’è una gestione differente della pazzia, che, prima, era soltanto inscritta nella demonologia. È sempre opera di qualche diavolo: ‘Che diavolo hai?’. ‘Che diavolo stai facendo?’. ‘Chediavolo stai pensando?’. C’era quindi il fantasma di possessione.
Poi, dopo, viene sostituito dal fantasma di alienazione. E alla base c’è il fantasma di padronanza che è proprio del discorso occidentale. Tutto avviene come se il ‘discorso scientifico’, psichiatrico, medico avesse soltanto secolarizzato e laicizzato il discorso demonologico. Dove veniva praticato l’esorcismo, viene operato un intervento coercitivo che va dalla camicia di forza all’elettroshock, allo psicofarmaco. Dove veniva praticata la confessione, si stabilisce la gamma variegata della psicoterapia. Quindi psicosi, nevrosi, a seconda del grado, della scala di ‘gravità’ del ‘male’. Allora, ci siamo chiesti: che cosa la mitologia medica e psichiatrica chiama psicosi? Qual è il disturbo assoluto per tale mitologia? È la materia. La materia della parola, irriducibile al concetto, alla convenzione, al naturale, al codice. Questi sono i primi passi compiuti rispetto alla cifrematica”.
Concluderò ricordando due considerazioni di Verdiglione, in risposta al mio intervento durante il congresso del 2002, Stress. La clinica della vita, che mi sembrano abbastanza pertinenti con la tematica di questo libro di Szasz. Si parlava di “disagio” dovuto alla brevità del tempo di cui si può, per evidenti ragioni, disporre negli interventi in un convegno di studi, ma anche spostandone il senso su un piano teorico generale, e Verdiglione faceva osservare che il disagio è una virtù della parola e non si può eliminare. Gli psichiatri, aggiunse, vorrebbero trasformarlo in mentale, il disagio invece è una virtù del principio. “Nessuno è padrone nella parola, della parola. Freud diceva che nessuno è padrone in casa propria, supponendo che la casa sia contraddistinta dal tempo e, quindi, che sia effetto del tempo”.
L’altra considerazione riguardava le mie riflessioni su questioni di etica e sulla verità, che Verdiglione disse di condividere, ma osservando che l’etica viene molto spesso scambiata con la morale e ridotta a un luogo del conformismo, e sottolineava, per quanto riguarda la verità, che la verità è effetto non causa. Se c’è un valore assoluto, questo è, aggiunse, la qualità della vita, la qualità della parola originaria, la qualità verso cui le cose si rivolgono: si può anche dire “il capitale”, in quanto cifra della parola originaria. Ciò è ben lontano dall’idea dell’impero del capitale. “L’idea dell’impero è assolutamente lontana dalla parola originaria ed è assolutamente lontana dal capitale. Non c’è un capitale come sostanza perché sarebbe l’altra faccia della morte. Il capitale sarebbe la morte come capitale e la morte come sostanza, quindi avremmo la morte come colpa e la morte come pena. L’istituto della vendetta fonda l’istituto della colpa e l’istituto della pena, ma è un discorso della morte… Se ci troviamo nella parola originaria, siamo lontani dall’idea dell’impero”.
È possibile intravedere, allora, qualche differenza tra la critica di Szasz al mito della malattia mentale e la dissidenza cifrematica. Nella sua critica alla psichiatria e alla psicanalisi, i luoghi argomentativi della logica binaria e oppositiva permangono, permane la morale, l’idea del soggetto come agente morale, l’idea del controllo e della padronanza. C’è la mitologia dell’identità, a cominciare dall’identità sessuale — “La maggior parte la ritiene [Virginia Woolf] malata di mente come se ciò fosse un fatto, come il fatto che era inglese e che era una donna”—, c’è la mitologia dell’appartenenza, della scientificità, della verità, della semiotizzabilità della materia, della materia corporea ridotta a “organismo”, a “fisicità”.








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