lunedì 17 agosto 2015

"Diario dal manicomio" di Giorgio Antonucci




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Diari dal manicomio
di Mariana Eugenia Califano

Vi ricordate l'appellativo della città di Imola prima dell'approvazione della legge n°180 del 13 maggio 1978? Vi ricordate perché questa città si era guadagnata la nomea di “città dei pazzi”? E ancora, vi ricordate l'Istituo psichiatrico dell'Osservanza? Giorgio Antonucci con il suo “Diari dal manicomio. Ricordi e pensieri” ci rinfresca la memoria, condivide con noi la sua esperienza e testimonia la sua battaglia.

E non è la prima volta. Quando nel 1978, anno della promulgazione della legge Basaglia, Dacia Maraini incontra Antonucci per intervistarlo, sceglie di presentarlo utilizzando parole semplici ma cariche di significato, che trasmettono al lettore l'immagine di chi si combatte con esemplare rigore: “Giorgio Antonucci non ha niente del medico tradizionale, indaffarato, autoritario, privo di abbandoni... La sua faccia triste esprime una dolcezza morbida, acuta, quasi dolorosa. I suoi occhi sono pieni di una timida assorta attenzione.” Descrizione che riflette la condizione di Antonucci quale uomo, che nel suo diario scrive “In città immense, grandi come nazioni, si vive soli e sperduti come gocce in un fiume. Con la paura e il dubbio nel pensiero e il manicomio dintorno, mi immaginavo di essere un vecchio eremita sapiente che aveva scelto la solitudine di sua iniziativa”.


E della solitudine che lo circonda nella difficile impresa di ridonare una vita degna ai dimenticati negli istituti psichiatrici egli ci parla già nelle prime pagine del libro, quando racconta come nel 1973, è invitato dal professor Edelweiss Cotti, di Bologna, a lavorare presso l'Istituto dell'Osservanza di Imola con la qualifica di medico di reparto: “Così un giorno andai a vedere a Imola per capire cosa mi aspettava. Forse, in quella situazione, la risposta più saggia da parte mia al singolare invito di Cotti sarebbe stata ringraziare per le buone intenzioni, rifiutare, salutare in fretta e andarmene via lontano senza mettere piede in città. Mi aspettavano tempi molto più duri e molto più aspri di quanto immaginavo. Cambiare quella situazione non era un lavoro da affrontare in solitudine come in realtà mi veniva proposto, anche se Cotti come direttore mi prometteva un aiuto che poi in effetti non mi avrebbe dato. L'istituto in cui ora mi stavo preparando a lavorare aveva quindici psichiatri tutti tradizionalisti convinti, ostili anche a piccole innovazioni.”

Arrivato all'Osservanza, Antonucci chiede di vedere il reparto più difficile, secondo i pareri dei colleghi e del direttore Cotti. Verrà portato al “padiglione delle donne agitate” dove scoprirà che le pazienti sono quasi tutte rinchiuse e legate ai letti di contenzione o agli alberi in cortile. Nelle pagine del diario abbondano le descrizioni degli spazi, più somiglianti a quelli di un centro di detenzione piuttosto che a quelli di una struttura medica: “Il corridoio che ci accoglieva superata la porta di ferro, aveva sulla destra le celle chiuse da solide e spesse porte di legno, interrotte solo dallo spioncino. I soffitti del corridoio erano altissimi e bianchi. Sulla sinistra del corridoio si notavano bene finestre molto alte, che attraverso le inferriate lasciavano intravedere un cortile disadorno, costruito in cemento bianco, con soli due piccoli alberi al centro e circondato da mura insuperabili.”. Ma il senso di privazione che si respira in questi luoghi acquista vividezza nelle slanci poetici che Antonucci intercala alle riflessioni e alla narrazione delle sue vicende. Tra tutte quella in apertura al diario: “In questa cella di pietra ho perduto i miei giorni”.

Un incipit che mette il lettore di fronte a quella condizione di privazione del bene più inviolabile, a quei maltrattamenti e a quelle torture che hanno minato in forma permanente lo stato psicofisico di molti pazienti. “Vediamo insieme una cartella del 3/12/1954 del reparto dieci dell'Osservanza: La paziente entra nell'istituto apparentemente calma, e al medico che l'interroga risponde con senso logico e parla abbastanza particolareggiata dei suoi disturbi e afferma di avere proprietà telepatiche. Alle domande del medico insiste nel confermare il suo disordine mentale, dimostrandosi fiduciosa in un pronto e rapido ripristino. Aspetto normale e contegno composto e calmo. ... Si legge dopo che la paziente, sottoposta a trattamento insulinico ha difficoltà a raggiungere il coma. Il 3 /2/1955 si annota che per la sua difficoltà a raggiungere il coma si inizia trattamento combinato con elettrochoc...” Poche righe dopo, Antonucci si chiede quale fosse lo scopo della cura, oltre alla morte della paziente.[...]


Le pagine si susseguono con ritmo serrato, danno spazio alle testimonianze di alcuni pazienti e raccontando i continui conflitti con i colleghi e con il resto del personale ogni qualvolta egli introduce una modifica al regime tradizionale dell'istituto. “ Dopo alcuni mesi dall'inizio del lavoro dovetti restare a casa, perché non stavo bene e quando rientrai al reparto quattordici trovai un'altra volta le camicie di forza e gli altri mezzi di contenzione. Pensavano che mi fosse scoraggiato e credevano che non sarei più rientrato. La presenza di Cotti non era servita a evitare l'arretramento. Al ritorno non dissi nulla agli altri medici e ricominciai da capo, rimettendo tutto a posto”.

Le riflessioni sul concetto di follia, che accompagnano gli episodi narrati, non risparmiano nemmeno il potere dello Stato. “Durante le guerre giornalisti, intellettuali e scienziati parlano di follia del potere quando si tratta dei delitti dei nemici, mentre le stesse cose compiute dai propri governi sono viste come dolorose necessità dettate dalla logica della storia, o come interventi utili di natura umanitaria. Sul concetto di guerra giusta basta dire che ogni stato ritiene giusta la propria e sbagliata quella degli altri. Il concetto di follia è una semplificazione che impedisce di pensare.”

La testimonianza di Antonucci sul lavoro presso l'istituto Psichiatrico Osservanza non lascia indifferente il lettore, è il racconto di un mondo che ha dell'irreale e dell'inumano. Ciò che egli denuncia è l'ipocrisia dei medici, degli operatori del settore e a volte dei parenti stessi dei ricoverati, l'indifferenza e i pregiudizi della società sulla inclassificabilità della diferenza.

Di Antonucci, Thomas Stephen Szasz, Professore di Psichiatria emerito presso lo Health Science Center della State University di Syracuse, in New York e autore del noto saggio critico “Il Mito della Malattia Mentale” dice “Antonucci ed io ci troviamo a sottolineare aspetti diversi di uno stesso punto di vista generale. Diciamo che se stessimo descrivendo una casa di sei o sette stanze io potrei soffermarmi sull’importanza di una stanza invece che di un’altra, ma siamo d’accordo sulla casa nel suo insieme: in questo caso che la casa è tutta da demolire.”

Giorgio Antonucci
Diari dal manicomio. Ricordi e pensieri
Spirali, 2006

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